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L’ amante del Re che abitava a Sorrento (I parte)

La magnifica area archeologica che viene identificata come la zona dei Bagni della Regina Giovanna a Sorrento, nell’ essere legata, per l’ appunto, al nome della Regina Giovanna è stata, in passato, legata a tante leggende ed a tanti racconti popolari che hanno come protagonista proprio la Regina Angioina a Sorrento.
L’ unico ad uscire da questa “moda” fu Gaetano Canzano Avarna che nel libro intitolato “Leggende Sorrentine” (edito a Sant’ Agnello nel 1883).
Lo studioso (che peraltro curò anche la pubblicazione del libro intitolato “Cenni storici sulla nobiltà sorrentina”), infatti, nel parlare della zona dei Bagni della Regina Giovanna, la collega ad una leggenda imperniata su una storia d’ amore culminata con un tradimento: quella di un nobile sorrentino del Sedil Dominova, conosciuto con il nome di Corrado Capece che, innamoratosi perdutamente di una non meglio identificata Diana, si vide scalzare, nel cuore della ragazza da Ferdinando I d’ Aragona.
Questo il favoloso racconto che, in realtà, sia pure con qualche distorsione e qualche imperfezione, in realtà , riguarda fatti realmente accaduti.
Prima di entrare nel merito delle verità storiche, sembra opportuno riportare la narrazione di Gaetano Canzano Avarna nella sua versione integrale, così come del resto, ha fatto anche Mario Russo nel libro intitolato “La villa romana del Capo di Sorrento” (edito a Sorrento nel 2006, presso la Tipografia Eurograf per conto del Centro Studi e ricerche Multimediali Bartolommeo Capasso).

Gli spiriti di Villa Pollio
Fra i ruderi delle opere romane di grande importanza che tuttora si scorgono in Sorrento, a giusto titolo vengono annoverati quelli della famosa Villa Pollio, che elevandosi a pochi chilometri di distanza dalla Città, tra il Capo S. Fortunata e quello di Massa, tra il tempio delle Sirene e I’ altro di Minerva, teneva innanzi a sé, dalla parte del lido i templi di Nettuno, di Ercole e di Giunone; villa le cui meraviglie furono cantate dal nostro poeta Stazio.
Le poche mura reticolate, i pochi vani, le vestigie sparse qua e là, il tanto decantato bagno gli avanzi di cisterne e di acquedotti che tuttavia si vedono, depongono anch’ oggi della magniftcenza di quelli edifizii, e meritamente, richiamano I’ attenzione e I’ interesse di ogni intelligente osservatore.
Giova intanto osservare che questo Pollio non è da confondersi con quel Gallo Asinio Pollione vissuto sotto Augusto, o con Annio Vero Pollione, di cui fa menzione Dione Cassio, né con quel Vedio Pollione, del quale antichi scrittori narrano lo smodato lusso e la crudeltà. Se dobbiamo aggiustar fede al nostro Stazio, il fondatore di tante delizie fu appellato Pollio Felice, visse ai tempi di Domiziano, fu patrizio Puteolano di sterminata dovizia, venne ascritto alla cittadinanza Napoletana, ebbe case in Ercolano e poderi in Taranto, fu cultore delle scienze astronomiche. e versato in eloquenza e poesia.
Nella prima metà del decimoquinto secolo, gli avanzi di quest’ antica Villa erano del tutto deserti, come lo sono tuttavia, e le sue mura, i suoi antri, le sue accidentalità naturali furono in quei tempi sovente nascondigli di ladri e di contrabbandieri, dei quali la tradizione ne conserva ancora la memoria. Inoltre questo recinto abbandonato, nel quale si aveva quasi la certezza di non incontrare ostacoli, servì spesso a coloro che avevano qualche contesa di onore che non potesse aggiustarsi in altro modo che colla spada, ed ivi varii gentiluomini, in simiglianti scontri, vi avevan perduto la vita. In quell’ epoca i duelli erano frequenti, perocché la nobiltà immersa nel fanatismo e dedita alle armi, era divenuta assai puntigliosa in fatto di onore, sicché ogni controversia decidevasi colla spada, sol’ arma conosciuta in quei tempi e che formava parte dell’ abbigliamento di ogni gentiluomo.
Lugubri pensieri di terrore e di sangue si associavano adunque a quelle dirute anticaglie, cui il profondo silenzio, e la naturale configurazione concorrevano ad accrescerne l’ orrore.
Quando per notte serena i pallidi raggi della luna rischiaravano con luce tremola ed incerta quel luogo, o per notte tempestosa le folgori, tratto tratto, squarciando le fitte tenebre, lo illuminavano colla loro luce sanguigna, quei massi, quei dirupi, quei rottami prendevano mille forme mobili, fantastiche spaventose.
Il pacifico marinaio che remigava sull’onda quieta, all’ avvicinarsi della mezza notte, interrompeva la sua mesta canzone, raccoglieva in fretta le sue reti e si allontanava dai pressi della Villa Pollio. I contadini dei fondi ivi circostanti dei Nobilione, dei Capece, dei Correale, all’ appressarsi della detta ora si affrettavano a chiudersi nei loro abituri, e non ne sarebbero venuti fuori per qualunque siasi cosa, mentre che i cani stessi dando segno di grande spavento, colla coda fra le gambe, andavano ad accovacciarsi nei siti i più reconditi.
Fu fama a quei giorni che allo squillare della mezzanotte una donzella bianco vestita usciva dalla profondità del mare e librandosi come a volo per la scoscesa pendice, recavasi sulla spianata della Villa Pollio, mentre che all’ ora medesima un bruno cavaliere, montato su di un alato cavallo, movendo da Sorrento con corsa rapidissima, vertiginosa, sorvolando sopra macerie, alberi abbattuti, scogli,  superando I’ impraticabile pendio, raggiungeva la donna sulla spianata, ed ivi eseguivasi infernale tregenda che durava tutta la notte.
Di queste apparizioni molto se ne parlò in quell’ epoca e tanto che la tradizione ne ha tramandata fino a noi la memoria, sotto il nome degli spiriti della Villa Pollio.
Portiamo la mente dei nostri lettori a quel tempo nel quale Alfonso d’Aragona contrastava il possesso del trono di Napoli a re Renato d’ Angiò, entrambi chiamati dalla Regina Giovanna II alla successione del regno, I’uno per adozione, l’ altro per testamento.
L’ Aragonese, prode nelle armi e fortunato, avea già conquistato parte del reame, ed occupata I’ isola dì Capri, gli tornò agevole impossessarsi di Sorrento, di Amalfi, di Salerno. La sua giustizia, la sua saggezza, |a sua magnanimità rendendo liete e sicure le popolazioni che capitavano sotto il suo impero, fecero spargere in brev’ ora per tutte le province l’ altissima fama delle sue virtù, mentre che il suo emulo Renato, ottimo principe anch’ egli, ma d’ indole soavissima, gaja, inconsiderata e dedito più alla musica, alle amene lettere, alla poesia, che alle cure di governo, fino a meritare il nome di re dei trovatori, abbandonava gli affari della guerra e dello Stato ai suoi ministri.
Da ciò si comprenderà di leggieri perché la maggioranza delle Università parteggiasse per
Alfonso; e poi chi non sa, che la moltitudine sempre plaude agli avventurosi. e sempre insorge a rendere più acerba la sorte dei vinti!
La Città di Sorrento, cui Alfonso non solo rispettò tutte le sue prerogative, ma ne concesse delle novelle, fu ligia alla stirpe d’Aragona, e molti dei suoi gentiluomini si arrollarono nell’ esercito Aragonese, profferendosi spontaneamente di continuar la campagna fino a che gli Angioini non fossero del tutto espulsi dal regno.
La fede serbata in tutti i rincontri dai Sorrentini a quella dinastia fè meritargli nell’anno 1469, il privilegio della cittadinanza di Napoli col godimento di tutte le esenzioni, immunità, attribuzioni concesse alla medesima Città di Napoli: privilegio che fu poi confermato dall’ Imperator Carlo V con diploma del dì 7 maggio dell’ anno 1519, il cui originale serbato nell’ Archivio Municipale di Sorrento, fu preda delle fiamme, secondo alcuni nell’ invasione barbaresca del 1558, e secondo altri nei politici sconvolgimenti del 1799 avvenuti per opera del così detto Mercantiello.
Nell’ anno 1442 le schiere Aragonesi penetrate in Napoli per un condotto sotterraneo, e ritiratosi in Francia il buon Renato, ebbe fine la guerra, rimanendo Alfonso I°, pacifico possessore del reame di Napoli, giacché già lo era di quello di Sicilia.
Era un giorno mite e sereno del mese di Ottobre ed una folla di Sorrentini festante, plaudente si avviava lungo la marina. Erano a vista le barche che conducevano alla loro dimora i cavalieri di Sorrento, reduci dalla fortunata guerra contro gli Angioini, ed il popolo correva ad accogliere lietamente, e a far festa a coloro, che avevano mantenuto saldo il valore nazionale.
In quel medesimo giorno, in quella medesima ora che le barche si approssimavano al lido, in uno di quei terrazzi che affollano i palazzi di Sorrento, e dai quali si gode a distesa la vista del mare, scorgevasi una gentile giovinetta del patriziato Sorrentino, la quale facendosi riparo alla soverchia luce con una mano che teneva tesa ad arco sulle cigli, era collo sguardo e coll’ animo tutto intenta ad osservare le varie barche che recavano i cavalieri Sorrentini, e dalla sua irrequietezza ben ravvisavasi che fra tutte ne bramasse discernere qualcuna più diletta al suo cuore.
Di cotesta donzella la tradizione ne ha serbato solo il nome: Diana e nulla più, e così noi la chiameremo, nome per altro molto felicemente adattato, imperocché la maestà del portamento, la stupenda perfezione delle forme e I’ incantevole leggiadria che traspariva dalla sua bellissima persona, ben facevano reggerle il paragone colla favolosa abitatrice dei boschi.
In quel tempo ogni donzella nobile era esperta nelle teorie dell’ Araldica, per modo che dall’ insegna che elevava ciascuna barca scorgevasi a chi appartenesse.
In fatti la nostra Diana mirò le bande dei Sersale, la rete dei Vulcano, le fasce dei Mastrogiudice, il leone rosso dei d’Alessandro, ma quando le fu fatto distinguere le tre fasce nere che avvolgevano il leone d’ oro dei Capece, un incarnato vivissimo si diffuse sul suo bel volto, il petto le balzò con ansia visibile che rivelava essere stato il suo cuore sollevato da grave sollecitudine.
Chi, nel tempo stesso, avesse potuto penetrare collo sguardo nella barca dei Capece, avrebbe scorto diritto sul bordo, tutto fisso a Sorrento, un giovine di poco più di vent’ anni, alto e snello della persona, bruno di aspetto per la polvere e il sole dei campi, d’ occhi nerissimi, scintillanti, di un’ assieme disinvolto, dignitoso, che palesava I’ elevatezza dell’ animo e del casato. Era Corrado Capece promesso sposo della bella Diana.
Dopo poche ore dallo arrivo, in una grande sala, addobbata secondo il gusto del secolo, Diana e suo padre aspettavano il giovine Capece. Come lo videro entrare, commossi, affettuosi gli mossero incontro; e qui un chiedere dei durati perigli, delle vicende della guerra, delle condizioni di salute e poi che si furono accertati del niun danno sofferto dal giovine, il padre chiamato da alcune sue faccende andò via, lasciando soli i due fidanzati.
“Oh mia Diana! – disse allora Corrado – che ardente brama mi struggeva di rivederti: com’è piena di te quest’ anima. Fra i rischi della guerra la tua dolcissima immagine mi seguiva dovunque. Il tuo amore, come I’ alito di Dio sulla creta, m’ infondeva vita, gioia, coraggio. Oh. Se un dì dovessi perdere questo amore! …
“Ed osi pensarlo? – soggiunse pronta la donzella.
“No, no, mia Diana, il Cielo non consenta che tu avessi a darmi un rivale. Ma io non voglio adombrare col dubbio il candore dell’ anima tua, che a me piace crederla tutta sincera. tutta pura.
“Oh mio Corrado – diceva Diana commossa da quelle nobili parole.
“Sì, mia diletta, io ti amo come debb’ essere amato un celeste oggetto, che come tale io ti comprendo nella mia mente. Ma se può giungere un giorno che nel tuo cuore venisse meno I’ affetto per me … Diana, quel giorno usami misericordia, uccidimi!!!!
“Cessa, cessa per pietà Corrado – gli rispondeva la fanciulla – “quali foschi pensieri tu rechi dal campo” e in ciò dire prorompeva in pianto.
Diana, per pietà, tergi quelle lagrime; al tuo pianto piangerebbero gli angeli”.
Così Corrado amava la sua Diana. Ma quel dubbio che il Capece esprimeva sulla fede di Diana era manifestazione di animo presago della mutabile indole della fanciulla, ovvero era solo apprensione di amore immenso, esclusivo che di tutto si adombra? Il seguito di questa leggenda risponderà a tale domanda.
Alfonso I° e Ferdinando I° d’ Aragona fra i re di Napoli, furono quelli che con più frequenza si recarono in Sorrento. Gabriele Correale, patrizio Sorrentino, giovinetto paggio di Alfonso I°, dal re assai riguardato per la soavità dei suoi costumi, per la sua nobilissima indole, ed alla di costui immatura morte, il fratello Marino, succeduto nella grazia del re, furono indubitatamente incentivo a far prediligere dagli Aragonesi la Città di Sorrento.
Era I’autunno dell’anno 1443, e Ferdinando, Duca di Calabria, figlio naturale di re Alfonso, ma da costui legittimato e dichiarato erede al trono di Napoli, si recò in Sorrento, sia per esprimere la sua riconoscenza ai patrizii che avevan preso parte alla campagna, sia per dimostrare la sua predilezione alla Città.
I reali Aragonesi, allorché venivano in Sorrento, prendevano stanza presso il cavaliere Francesco Correale, padre dei giovinetti Gabriele e Marino. Era costume in quei rincontri, che tutti i componenti dei sedili, colle rispettive famiglie, dovessero recarsi a fare omaggio, sia al re sia al duca di Calabria; ed in quel giorno, colle dame e damigelle della nobiltà Sorrentina, non mancò la nostra Diana che, fra tutte, apparve splendidissima per bellezza ed eleganza.
Il Duca ne rimase vivamente colpito, né cerco simulare l’ impressione che fecero sul suo cuore tante attrattive, imperocché oltre all’essersi intrattenuto con Diana molto più di quel tempo che avrebbe consentito la stretta etichetta della corte, le fece promessa che sarebbe venuto spesso a vederla, e per darle un argomento come egli intendeva prontamente attuar la promessa, nel licenziarsi dal Correale, disse ad alta voce:
“Messer Cavaliere, noi vi ringraziamo dell’ ospitalità, che con tanta buona grazia ci accordate, e per darvi una prova che la crediamo sincera, vi facciam noto che sabato prossimo intendiamo passar la notte in vostra casa, divertendoci alla danza, per lo che vi concediamo facoltà invitare in nostro nome, tutte le medesime dame e damine, che questa mane ci han fatto lieto della loro presenza” – e nel dire queste ultime parole dirigeva i suoi sguardi fulminei all’ inebbriata Diana.
Ferdinando non ebbe neppure una di quelle virtù, che resero illustre suo padre, facendogli meritare dalla storia il titolo di magnanimo. Fu invece simulatore, vendicativo, crudele. Fin dalla prima giovinezza, circondato da giovani allevati in mezzo alla licenza delle guerre civili ed alla libertà dei campi, era divenuto accessibile ad ogni vizio e derisioni di ogni onesto sentimento laonde il di costoro esempio, rese Ferdinando scettico per principio ed incredulo di ogni virtù. Gli avvenimenti particolari poi della sua vita, lo disposero maggiormente all’ oblio di ogni riguardo.
Per la sua condizione di figlio naturale, videsi freddamente accolto dalle varie Corti d’ Europa, ove fu tollerato, più pei riguardi che tutte le potenze usavano al padre, anziché per considerazioni personali; s’ intese spesso motteggiare sulla impurità della sua nascita, e videsi apertamente contrastata la sua adozione al trono dalla Corte di Roma. Tutto ciò aveva esasperato il suo carattere, indurito il suo cuore. Egoista e spietato, quando poteva promettersi qualche piacere, volentieri se ne procurava, spesso a spese dell’ altrui infelicità, non essendo in ciò scrupoloso per quella specie di odio che aveva concepito pei suoi simili, ai quali era felice di far provare quei medesimi pungoli che avea egli stesso provati.
Tutto ciò non ignorava il saggio Corrado Capece, come non sfuggì al suo accorgimento che le preferenze del Duca tornavano accette alla vanità di Diana, a salvarla dall’ ignominia dalla quale era minacciata, laonde qualche giorno prima della festa ordinata dal Duca, si recò da lei onde scongiurarla di non andarvi, e se ciò non le fosse possibile, simulando momentanea indisposizione, non ballare con alcuno, per così non porgere opportunità al principe di avvicinarla con libertà.
Non staremo qui a dettagliare la viva discussione intervenuta fra i due fidanzati. Corrado, animato dagli elevati sentimenti di onoratezza di virtù, forte pregava Diana, in nome del loro amore, in nome della di lei reputazione, del decoro dell’ intero parentado, di evitare qualunque passo che avesse potuto sentire di leggiero, d’ inconsiderato; mentre che Diana, cui il fascino della vanità aveva montato il capo, colle fisime di riguardi sociali, di obbedienza a superiori cenni, procurava orpellare la sua condotta, conchiudendo alla fine, che essa avvertiva in sé tanta forza da saper mantenere nei giusti confini la devozione di suddita col decoro di nobile donzella. Per verità non sappiamo, se più per imporre termine ad una discussione che la contrariava, ovvero col fermo proposito di darvi adempimento, finalmente promise al Capece che non avrebbe preso parte alle danze.
La tradizione narra che quella festa data dal Cavaliere Correale ebbe qualche cosa di sorprendente, di fantastico. Ampie sale risplendenti di luce, ricoperte di arazzi, ornate di oro, di capolavori di arte in fatto di pittura e di scoltura, di specchi di Murano, di falde di merletti finissimi, facevano un effetto stupendo. I mille colori dei velluti e delle sete, le fogge eleganti delle vesti e delle acconciature, i musicali accordi, il profumo di mille e mille fiori, lo scintillio delle gemme, la bellezza delle donne, producevano un assieme tumultuoso, inebriante da far venire le vertigini.
Corrado recossi a quella festa col solo proposito di sorvegliar Diana, di assicurarsi fino a qual punto ella adempisse la fatta promessa; ma non durò gran tempo a rimanere in forse. Come s’ intuonarono i preludii della danza, vide il Duca di Calabria prenderla per mano, e, con modi prevenenti, amorosi, fra sommesse parole e teneri sorrisi, condurla nella sala da ballo.
Capece ardente, accecato d’ ira nel primo impulso si mosse verso la coppia, ma repente i suoi occhi si offuscarono, le sue orecchie tintinnarono, il suo cuore scoppiò in modo da rompergli il petto e gli fu impossibile avanzare un passo. Con volto pallido, contratto, si limitò a vibrare sopra Diana tale uno sguardo prolungato, profondo, fulminante, nel quale era espresso tutto il disprezzo, tutta l’ indignazione del suo animo, e come il poté, barcollante fuggì dalla festa.
Ma le note della musica, il turbinio del ballo, bentosto cancellarono dalla mente di Diana I’ impressione di quello sguardo, e più non vide che Ferdinando, più non avvertì che I’ ebbrezza derivante dai dolci accenti che le andava sussurrando alle orecchie, delle amorose cure che la circondava, e tutto ciò faceva balzarle il cuore di palpiti soavissimi. arcani.
L’infedeltà di Diana annientò nel buon Corrado quanto aveva di fede nel mondo. Il suo era stato un amore ardente, immenso, fiducioso, proprio di un cuore vergine, cui la mancanza di disinganni manteneva tutta la freschezza ed il profumo delle illusioni. Tutta la sua vita egli aveva posto in quell’ amore; spezzato questo. intese spezzato ogni legame col mondo. Per un momento diffidò della virtù, credé il sorriso di ogni donzella un infernale artificio, il mondo una congerie d’ inganni e divisò far soffrire ad altri ciò che egli medesimo aveva sofferto.
Ma temprato a sentimenti gentili, bentosto comprese esservi nella vita più sublime missione che quella di deplorare l’ amore di un’ indegna donzella; e poi che ebbe veduto la fragilità delle terrene speranze, i mutabili affetti del mondo, si addisse allo stato ecclesiastico, e, saggio, studioso, di santa vita, raggiunse la carica di Arcivescovo di Benevento e di Legato Apostolico, e riuscì uomo di gran dottrina, prudenza e consiglio.
Diana dopo qualche tempo stabilì la sua dimora in Napoli, ed a completarne la storia diremo, che delle tre figliuole che in seguito da essa nacquero, Maria fu disposata ad Antonio Piccolomini, nipote di Papa Pio II, portando in dote il Ducato di Amalfi, il Marchesato di Capistrano, quello d’ Iliceto e la Contea di Celano, ed il suo magnifico sepolcro ammirasi nella chiesa di Monteoliveto di Napoli. Lucrezia in prime nozze fu moglie del Principe di Altamura ed in seconde nozze di Onorato Gaetano, Duca di Traetto, e l’ultima, Ilaria, divenne moglie di Leonardo della Rovere, Prefetto di Roma e nipote del Pontefice Sisto IV, al quale portò in dote il Ducato di Sora.
Nell’ anno 1457 Diana uscì di vita dando alla luce un figliuolo, al quale fu imposto il nome di Enrico, ed a suo tempo fu investito del titolo di Marchese di Gerace.
E, superfluo aggiungere che dal dì che Diana andò a fissare la sua dimora in Napoli, non apparvero più gli spiriti della Villa Pollio.
Ed ora, allorché i nostri lettori si recheranno a visitare le ruine della Villa Pollio, saranno compresi da un sentimento di ammirazione per le virtù del Capece, e di misericordia per la fralezza di Diana e per le colpe di Ferdinando, personaggi tutti sui quali la storia, vindice suprema e terribile degli uomini e del loro operato, ha già pronunziato il suo verdetto.
Fabrizio Guastafierro