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La gestione della Chiesa di Santa Maria a Chieia (3.2)

III.2 Rapporti tra la confraternita di s. Maria a Chieia ed il convento francescano dello stesso nome
La confraternita, come del resto ogni altra istituzione simile, ebbe fin dalla fondazione bisogno di cappellani per fare officiare la chiesa in cui aveva sede, e che sceglieva sia tra i sacerdoti secolari che tra i religiosi. Certamente apparteneva al clero secolare quello che ne era cappellano al principio del penultimo decennio del secolo XV, e che, come abbiamo già detto, si chiamava Aniello de Guidone. Se però teniamo presente che alla fine di quello stesso secolo il dirupo era detto “la vena de li monaci (ubi dicitur la vena de li monaci iuxta bona abbate Craporis) (12), ne segue logicamente che già prima di allora quella chiesa era stata affidata a dei religiosi – non sappiamo tuttavia di quale ordine – per un tempo tanto lungo, che la loro presenza colà aveva dato origine alla formazione di quel toponimo: cosa, che non sarebbe potuta avvenire per una loro permanenza saltuaria o di breve durata in quel luogo. Anche un trentennio dopo al servizio di quella chiesa era addetto un sacerdote del clero regolare: lo si deduce da un I affermazione fatta nel 1532 da un testimone nel processo contro il feudatario di Vico Equense, Federico Carafa, il quale tra l’altro diceva che “lo confessava lo monaco di S. Maria a Chieia” (13). Tuttavia benché la confraternita avesse un sì vasto campo di scelta, non di meno, data la lontananza di quella chiesa da Vico Equense e da ogni altro centro abitato, e la difficoltà di raggiungerla,seppure servendosi dell’ antica strada romana, che per la Sperlonga andava da Sorrento a Castellammare, essa non trovava facilmente un sacerdote, che ne accettasse il compito di cappellano, e se qualcuno l’ assumeva, molto spesso non vi si recava: sicché, come si legge nell’ istrumento dell’ 8 dicembre 1596, del notaio Vincenzo Staiano di Napoli, “sepe sepius occurrit quapropter in ea, non reperto sacerdote, deficit sacrificari”.
Bisogna, perciò, dire che i dirigenti di quella confraternita dovettero essere ben lieti di mettere quella loro chiesa a disposizione dei Francescani, quando essi, cedendo alle premurose insistenze del feudatario di Vico Equense, Ferrante Carafa e del fratello Mario, arcivescovo di Napoli, si decisero ad aprire un loro convento nel territorio del comune. Ottenuta pertanto dal Papa Gregorio XIII, con un Breve del 15 agosto 1574 (14) la facoltà di fare quella cessione, essi con un istrumento del 22 agosto dell’ anno successivo del già citato notaio Al. Fontana, anch’egli di Napoli – la cedettero ai detti Francescani perché divenisse la chiesa dell’ erigendo convento.
Oltre alla detta chiesa, alla sagrestia ed agli arredi sacri, che vi si trovavano, ed alle case, che vi erano intorno, ed alla cisterna e cortile, la confraternita donò loro anche il giardino sottostante alla detta chiesa, e che corrisponde all’ attuale cimitero di s. Francesco, chiamato allora la vigna di s. Maria a Chieia, come pure la zona contigua, coperta di alberi di castagno e di quercia. Inoltre essa concorse alla fabbrica di quel convento con la somma ricavata dalla vendita di un mulino ad acqua, che possedeva presso S. Maria del Toro, e s’ impegnò pure a dare ogni anno per il mantenimento della comunità religiosa, che l’ avrebbe abitato, composta di almeno sei religiosi, 50 tomoli di frumento di ottima qualità. A vantaggio della medesima cedette pure il suo diritto di fare annualmente la questua dell’ olio, del vino e del mosto, ed anche quella della legna, del pane e di ogni cosa commestibile. In più per far tenere accesa giorno e notte una lampada nella chiesa concesse ai medesimi religiosi una parte dell’ uliveto, che possedeva vicino ai beni donati. Nel cedere quella chiesa la confraternita si riservò sia le due fosse, che erano nel pavimento della medesima, per continuare a seppellirvi i cadaveri dei suoi ascritti, e sia la cappella detta della grotta per le funzioni. Si riservò pure il diritto di ricostruire quella medesima cappella come sarebbe meglio piaciuto ai suoi dirigenti, senza che i detti religiosi vi si potessero opporre, qualora la struttura della chiesa, che era stata loro ceduta, venisse cambiata in modo che la detta cappella non si trovasse più unita al suo altare maggiore e sul medesimo piano. Anche i Francescani nel ricevere queste donazioni, fatte loro dalla congrega, assunsero degli obblighi, dei quali il primo fu quello di celebrare almeno una messa letta al giorno nella cappella della confraternita donatrice, ed una cantata quattro volte all’ anno, cioè nella prima domenica di quaresima, nella domenica in albis, nel mercoledì dopo la Pentecoste ed il 15 agosto; il secondo di accompagnare gratuitamente alla sepoltura i fratelli e le sorelle defunte e di suonare in quella occasione la campana a morto; il terzo di permettere alla confraternita di tenere durante la messa cantata, celebrata ogni prima domenica del mese nella chiesa, che era stata loro ceduta, la “banca” con il vassoio per raccogliere le offerte dei fedeli, da servire per opere di carità e per il mantenimento della cappella. Sorto intanto il convento, la confraternita, premuta da difficoltà economiche, non soddisfece l’ impegno preso di dare annualmente i 50 tomoli di frumento convenuti. Per cui i religiosi, dopo aver più volte sollecitato invano i suoi dirigenti a tener fede agl’ impegni assunti dai loro predecessori, ricorsero alla Santa Sede per essere tutelati nei loro diritti, ed essa intervenne, delegando il vescovo di Vico monsignor Paolo Regio, ad esaminare e definire la vertenza. Egli, sentite le parti e valutate le loro rispettive ragioni, nel luglio del 1584 diede la sua sentenza, che non acquietò i contendenti. Di conseguenza la lite continuò ancora per 12 anni, cioè fino al 1596 arrivando ad una transazione, in forza della quale la confraternita invece dei 50 tomoli di frumento convenuti s’ impegnava a dare ogni anno ai Francescani di S. Maria a Chieia 56,80 ducati (15).
Senonché neanche con quest’ accordo la vertenza finì: cessò definitivamente solo un cinquantennio dopo, ossia nel 1643, quando la confraternita cedette loro il reddito di 20 ducati l’anno, che essa aveva sulla dogana di Napoli (16). Chiusasi così tra i Francescani di S. Maria a Chieia e la confraternita omonima la questione qui sopra esposta, dei loro reciproci rapporti non sappiamo più nulla per circa tre quarti di secolo: segno, questo, possiamo dire, che essi erano divenuti del tutto normali, e che, quindi, tra di loro tutto procedeva d’ amore e d’ accordo. Dopo quel silenzio la prima notizia, che ne abbiamo, ci è fornita da un istrumento del 13 aprile 1725, del notaio Francesco Cioffi, dal quale apprendiamo che la detta comunità francescana aveva restituito il pezzo dell’ oliveto, che al momento della cessione della chiesa di S. Maria a Chieia le era stato dato, perché con l’ olio, che se ne ricavava, tenesse notte e giorno accesa una lampada nella detta chiesa. Ed allora la confraternita per rispettare la volontà dei suoi ascritti, che oltre un secolo e mezzo prima avevano assunto quell’ impegno, si obbligò a dare ai frati per il medesimo fine l’olio, che ne avrebbe ricavato. Costituito di poi a Massaquano, poco dopo la metà dello stesso secolo, anche un cimitero per la sepoltura degli ascritti alla confraternita, pure le due fosse, che essa aveva in quella chiesa furono abbandonate, e per circa un secolo i suoi dirigenti non s’interessarono più né di quella chiesa né dell’annesso convento e neppure dei beni, che esso aveva. Ma, poco. dopo gli anni sessanta del secolo scorso, avvenuta la soppressione degli Ordini e congregazioni religiose, ordinata dal governo italiano con il regio decreto n. 3036, del 7 luglio 1866, ed il conseguente incameramento da parte del medesimo di tutti i loro averi, la confraternita, come proprietaria dei beni, che nella fondazione del convento di S. Maria a Chieia, aveva donato ai Francescani, propose causa contro il Fondo per il culto e la direzione del Demanio per riaverli. Ed a questo scopo già prima che la soppressione dei conventi fosse discussa dal parlamento italiano, essa come risulta da una delibera dei suoi ascritti dell’ 11 settembre 1846 (17), aveva mandato al suo priore di allora, che era un certo Biagio di Martino, ed al confratello Salvatore Ferraro, di nominare dei difensori di quei suoi beni. Avvenuta di poi, con la pubblicazione del detto decreto, l’ espulsione dei Francescani anche da questo loro convento, essa autorizzò il medesimo priore a chiedere e ad accettare a suo nome la chiesa di quel convento (18) cose tutte, che al momento dell’ allontanamento dei religiosi erano state messe sotto custodia dai funzionari del ministero delle Finanze. Da parte sua intanto il Fondo per il culto, accogliendo benevolmente la disponibilità mostrata dalla confraternita, perché le venisse affidata la detta chiesa, il 9 aprile dell’anno successivo a quello della soppressione dei conventi, tramite il sindaco di Vico Equense, gliela affidò. In conseguenza poi dell’ esito negativo del giudizio intentato in quello stesso tempo dalla confraternita contro il Demanio e contro la stessa amministrazione del Fondo per il culto, quella chiesa le rimase a titolo di semplice uso e non di proprietà, e nessun indennizzo le fu concesso per il giardino del convento, che il Demanio aveva concesso al comune per farvi il cimitero, e neppure le fu dato nulla per l’ uliveto che vi era accanto, venduto ad un privato, mentre il fabbricato del convento continuò ad essere tra i beni demaniali in attesa di un compratore. Ed a comprarlo furono, oltre un decennio dopo, gli stessi Francescani nelle persone dei padri Antonio Vigilante di Padula, Diego Lamberti, Francesco Cardillo e Pasquale Bruno, naturalmente come semplici cittadini e non come religiosi, perché come tali non erano né ammessi né riconosciuti dal governo del tempo. L’ atto di acquisto, che tra le altre clausole conteneva anche l’ obbligo per i compratori di chiudere i passaggi tra l’ ex convento e la chiesa annessa, fu stipulato dal notaio A. Visco il 16 novembre 1878, ed il possesso, dopo i necessari controlli da parte della Corte dei Conti e l’ approvazione del Ministero delle Finanze, fu loro concesso il 21 giugno dell’ anno seguente (19) . Subito dopo, in seguito alle disposizioni del padre provinciale della provincia francescana del Principato (20), alla quale apparteneva anche il convento di cui parliamo, vi si raccolsero i frati superstiti, che ne erano stati espulsi 13 anni prima, dando di nuovo vita alla comunità francescana di s. Maria a Chieia, la quale, per l’ attenuata intolleranza delle autorità civili verso i religiosi, prese pure ad officiare pubblicamente la chiesa del convento che nel 1867 era stata affidata alle cure della confraternita. Questa poi, un decennio dopo, propose agli stessi religiosi del risorto convento di cederne loro la cura e la manutenzione, ponendovi però delle condizioni, che furono presentate ai superiori provinciali dell’ Ordine, e, da essi discusse, furono ridotte alle seguenti: l) Il rettore della chiesa di S. Francesco in Vico Equense è il guardiano pro tempore: lo stesso avrà la cura di mettersi d’ accordo con la suddetta congrega e di tenerla contenta e soddisfatta in tutto ciò che non è contrario alle leggi ecclesiastiche e civili, e sempre dipendentemente dal Ministro Provinciale 2 ) La religiosa famiglia di S. Francesco in Vico Equense, per grata riconoscenza verso la stessa congrega, intervenga anno per anno alla sola processione di S. Maria a Chieia. Accettate dalla confraternita le proposte dei Francescani, ed affidata, in conseguenza, ai medesimi la chiesa, si visse pacificamente fino al 1921, allorché una nube venne a turbare i loro buoni rapporti, dimostrati anche in quello stesso anno dal suo concorso pecuniario ai lavori di restauro, che i medesimi francescani avevano fatto eseguire in quella chiesa (21) . L’ occasione fu la pubblicazione di un piccolo scritto dal titolo “Brevi cenni cronostorici del santuario di S. Maria a Chieia” (22) a firma del padre Ludovico Cinque, nei quali egli, passò sotto il più assoluto silenzio l’ opera della confraternita per la venuta dei Francescani a Vico Equense per la costruzione del loro convento a Chieia. Fortemente irritati per quel silenzio, che equivaleva ad una aperta negoziazione, gli ascritti alla medesima chiesero pubbliche ritrattazioni, esigendo: l) la ristampa corretta di quei “Cenni”; 2) la collocazione nella chiesa del detto convento della seguente iscrizione: “I Frati Minori di s. Francesco d’ Assisi nel 1575 ottenevano dai congregati di s. Maria a Chieia di Massaquano questa chiesa con ritiro e con beni dotalizi e nel 1867 la cessione dell’ uso della chiesa rivendicata dal governo, che l’ aveva incamerata insieme ai beni”; 3) l’ affissione dentro e fuori della medesima chiesa della scritta: “chiesa di S. Maria a Chieia edificata dalla congrega di Massaquano”; 4) intervento dei Frati alla processione della protettrice in ogni anno, e celebrazione gratis della messa cantata all’ arrivo della processione; 5 ) mettere a disposizione dei superiori della congrega e del clero una o due stanze per potersi ivi trattenere durante la messa cantata (23). Da questa parte i Francescani, com’ era naturale, si guardarono bene di sottomettersi a sì pesanti richieste. Sicché né l’ intervento pacificatore dell’ arcivescovo di Sorrento e di altri personaggi laici ed ecclesiastici, e né due anni di estenuanti trattative riuscirono a placare gli spiriti con un onorevole compromesso per entrambe le parti. In tale situazione gli ascritti alla confraternita in una seduta plenaria, tenuta il 14 gennaio 1924, all’ unanimità deliberarono: 1) di esonerare il padre guardiano dei Frati Minori di s. Francesco dalla funzione di rettore della chiesa di S. Maria a Chieia, e di chiedere la riconsegna alla confraternita della stessa con tutte le sue pertinenze ed accessori; 2) di autorizzare il priore pro tempore, che era un certo Giovanni Grieco, a far ricorso a tutte le vie legali per addivenire alla detta riconsegna (24). Ed egli, in seguito al mandato ricevuto, ricorse dapprima all’ autorità giudiziaria. Non essendo però riuscito ad avere per quella via partita vinta, portò la questione davanti alla Sacra Congregazione dei Religiosi (25), competente a decidere su quella vertenza. Ma ciò che la confraternita chiedeva, e che era, oltre alle concessioni qui sopra elencate, l’ adempimento dei patti stabiliti coll’ istrumento del 22 agosto 1575 del notaio Al. Fontana (26), non le fu concesso, non già perché i giudici ecclesiastici non fecero il loro dovere, come, purtroppo, è stato scritto (27), ma anzitutto per il semplice fatto che la sua richiesta si fondava su un presupposto, che, nel caso di donazioni fatte per motivi di carattere religioso – come era quello di cui qui si tratta non aveva, né ha, alcuna rilevanza giuridica, cioè l’ ingratitudine dei beneficiari, ossia dei Francescani del convento di S. Maria a Chieia, dato che in questo genere di donazioni il termine vero, a cui è diretta la beneficenza, è Dio o i Santi, i quali non sono mai ingrati, e non già la bella o brutta faccia degli uomini, che usufruiscono di quei beni.
Inoltre quella richiesta non teneva conto del fatto che il convento, di cui la confraternita rivendicava 13 camere, dopo l’ incamerarnento del 1866 era stato ricomprato dai religiosi con denari propri, e con la chiesa annessa al convento, dopo il loro allontanamento, non era stata dal Fondo per il culto restituita in proprietà alla confraternita: gliene era stato soltanto concesso il semplice uso, con l’ espressa clausola, che, se essa fosse stata chiusa al culto, la medesima confraternita non avrebbe potuto pretendere nulla. E bisogna anche ricordare che quel regime durava ancora nel 1891, allorché la congrega la consegnò ai Frati, come appare evidente dalla terza condizionale apposta a quella cessione, in cui si diceva che il guardiano, in quanto rettore della chiesa, doveva ad ogni richiesta del governo dare conto degli oggetti, che nel 1867, erano stati affidati alla confraternita: segno, anche questo, che la confraternita non ne era la prioritaria. Infine la confraternita non teneva conto del pacifico possesso trentennale di quella chiesa da parte della comunità francescana, in virtù del quale – secondo l’antico adagio del “melior est conditio possidentis”, essa se ne poteva ritenere proprietaria: tanto più che quella chiesa, materialmente considerata, non era quella ricevuta dalla confraternita: l’ avevano costituita ex novo i Francescani tra la fine del ‘500 ed il principio del secolo successivo. Respinto pertanto il ricorso, e chiusa la vertenza, la Sacra Congregazione restituì alla confraternita i documenti presentati in originale, che erano solo le delibere dei suoi ascritti, raccolte nel volume I, delle “Conclusioni della Congrega di Massaquano“: volume, che tuttora si conserva, insieme al II, nella sua sede, e con la sua presenza colà, smentisce in maniera inoppugnabile l’ ultima falsità del detto scritto, – citazione 15 – che si chiude appunto con la menzognera affermazione, che quei “documenti restano arbitrariamente sequestrati presso la sacra congregazione e la questione insoluta”. E per chiudere si aggiunge che è superfluo dire che in conseguenza di questa contesa, come normalmente suole accadere in simili vicende, i rapporti tra gli ascritti alla congrega di Massaquano e la comunità francescana di s. Maria a Chieia divennero freddi, per non dire ostili.
Ma, anche tra essi con il passare del tempo, e degli uomini più vicini alla vicenda, i rapporti tornarono ad essere cordiali, e tuttora lo sono, con l’ auspicio che lo siano fino al più lontano futuro.
Note:
( 12) Cfr. l’ istrumento de l 29 ottobre 1499 del notaio Regnabile Palescandolo.
(13) Cfr. Gli estratti fatti all’ avv. B. Ferraro del volo 10 dei processi 52 e 53 della Commissione Feudale. Fol. 714 t.
(14) Wadding L. Annales Minorum seu trium Ordinum a S.F. institutorum, Quaracchi. 3a ed. vol. XX. p. 654.
(15) Cfr. L’istrumento, già più volte citato, dell’ 8 dicembre 1596 del notaio Vincenzo Staiano.
(16) Cfr. L’istrumento del 6 gennaio 1643 del notaio Vincenzo Cioffi.
(17) Cfr. Il libro delle “Conclusioni della Congrega di Massaquano”, vol. I, foll. 12-13.
(18) Cfr. l’ istrumento del 6 gennaio 1643 del notaio Vincenzo Cioffi.
(19) Cfr. L’ archivio del convento di S. Maria a Chieia, per le notizie sull’ istrumento d’ acquisto e sulle altre carte ad esso relative.
(20) Cfr. per quelle disposizioni l’ archivio indicato nella nota precedente.
(21) Cfr. Libro delle “Conclusioni della Congrega di Massaquano”, vol. II, adunanza del 28 agosto 1921. (i fogli sono numerati).
(22) Il testo di quei “Brevi Cenni” è nell’ archivio del Convento.
(23) Per le richieste qui elencate si veda il fascicolo dei documenti riguardanti la vertenza, che è conservato nell’ archivio parrocchiale di Pacognano.
(24) Cfr. Libro delle “Conclusioni della Congrega di Massaquano” vol. II, adunanza del 14 gennaio 1924. (i fogli non sono numerati),
(25) La posizione dell’ incartamento di quella vertenza presso la s. Congregazione dei Religiosi è: 1422/28.
(26) Per tutte queste richieste si veda il fascicolo dei documenti ricordato nella nota (23).
(27) Questa dura affermazione nel caso presente certamente falsa, si legge nell’ultima pagina di un dattiloscritto anonimo dal titolo “Cenni storici” – Congrega S. Maria a ChieiaFrati Minori – composto circa mezzo secolo fa e conservato nell’archivio della congrega.
© Testo integralmente tratto dalla Tesi di Laurea intitolata “L’ Insediamento dei Francescani e la loro presenza nella Penisola Sorrentina”, discussa dalla Dott.ssa Serafina Fiorentino, nell’ anno accademico 1992/1993 presso la Facoltà di Teologia dell’ Ateneo Romano della Santa Croce (Istituto superiore di Scienze religiose dell’ Apollinare). Relatore Prof. A. Soldatini.
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