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Gli equivoci sui possibili “Duomo di Sorrento”

Capitolo II

Da epoca immemore la Chiesa del Monastero di San Renato e quella dei Santi Felice e Baccolo sono al centro di accese dispute.
La “vexata quaestio” è: i due edifici sacri ospitarono effettivamente la cattedra dell’ Arcivescovo di Sorrento?
Da questa prima questione complessa e controversa volta a risolvere un problema molto discusso e, finora, non ancora risolto ne discende una seconda: In caso affermativo quale delle due chiese ha assolto per prima alla funzione di prima Cattedrale della Città del Tasso?
Oggi, per le ragioni che esporremo in seguito, si ha motivo di ritenere che il titolo di “chiesa maggiore” – se non per periodi relativamente brevi – non toccò né all’ una, né all’ altra.
Eppure, sull’ argomento, si sono registrate accorati scambi di opinioni – sia pure per il tramite delle pagine di pubblicazioni – che come già si è avuto modo di precisare, talvolta hanno visto scendere in campo perfino i vertici ecclesiastici.
Tra questi, particolarmente eloquente ci sembra il caso che vide interessato l’ Arcivescovo di Sorrento, Filippo Anastasio (1).
Questi, a prescindere dalla specifica dignità ecclesiastica ricoperta e dal possesso di un elevatissimo grado di preparazione di tipo umanistico – sicuramente prima di essere nominato Patriarca di Antiochia e di lasciare la Città del Tasso – ebbe modo di acquisire notizie e leggere documenti a cui pochi altri avrebbero potuto avere accesso. Compresi quelli relativi, per l’ appunto, alla Cattedrale.
Non fosse altro che per questo solo aspetto, quindi, al di là di ogni considerazione di merito sulla valenza e sull’ attendibilità della sua già richiamata opera intitolata: “Lucubrationes in Surrentinorum Ecclesiasticas Civilesque Antiquitates”, egli consapevole della sua stessa autorevolezza, nel soffermarsi sulla identità della prima chiesa maggiore di Sorrento, volle smentire la possibilità che essa fosse da individuarsi in quella di San Renato e, tra l’ altro, scrisse:
VI – In conferma di ciò viene il leggersi negli atti di San Renato che egli dopo essere approdato ai lidi di Sorrento, si ritirò in quel deserto dove si tramanda che vi fosse stato il primo tempio vescovile, o piuttosto delle grotte ed un rifugio per gli antichi Cristiani al tempo delle persecuzioni; nel quale luogo si dice che lo stesso San Renato si preparò delle cellette per abitarvi. Ora, se il tempio vescovile non fosse ancora stato trasferito all’ interno della città, certamente San Renato non si sarebbe recato in un deserto, poiché egli avrebbe lì vissuto con il Vescovo o almeno con altri Cristiani; né avrebbe avuto la necessità di edificare per sé delle cellette; giacchè almeno nella stessa grotta, dove altri avevano abitazione, avrebbe potuto abitare anche lui. Dunque al tempo di San Renato la città di Sorrento si era già sottomessa al soave giogo della legge Cristiana; il che è confermato dagli Atti e dall’ ufficio dello stesso santo, in cui si legge che lo stesso San Renato venne proclamato Vescovo apertamente e per decisione pubblica.
Infine se la città di Sorrento non avesse ancora pubblicamente professato il Cristo, o lì non si sarebbe diretto San Renato, che era sfuggito dalle mani dei persecutori, o almeno non si sarebbe forse portato in rupi deserte, ma avrebbe avuto cura di insegnare i rudimenti della fede e di predicare la fede Cristiana al popolo infedele.
VII ma, se si dicesse che al tempo di San Renato la fede Cristiana fosse stata pubblicamente abbracciata dalla città di Sorrento; che l’ Episcopio non ancora fosse stato trasferito all’ interno della città; ciò sarebbe del tutto inverosimile. Se infatti in quel momento lo stato di Sorrento, già iniziato alle cose sacre Cristiane, non avesse avuto la Chiesa Vescovile all’ interno della città, a parte l’ inverosimiglianza di ciò, certamente allora più volte al giorno i cittadini si sarebbero recati nel vecchio Episcopio, solitamente frequentato di nascosto al tempo delle persecuzioni. Come dunque San Renato si sarebbe portato in un deserto? Come avrebbe abitato un luogo occulto e solitario, pieno di spine e di rovi? Dunque anche dalle riflessioni ottiene non poco peso la tradizione che asserisce che l’ Episcopio della città di Sorrento sia stato portato all’ interno delle mura ai tempi di Costantino il Grande o poco dopo ed anzi che in quel periodo quel tempio di idoli sia stato consacrato a San Felice di Nola.
VIII Del resto questo tempio sotto il nome dei santi Felice e Bacolo fu sempre Chiesa Cattedrale fino all’ anno 1450 circa, come ritiene Girolamo Sersale; infatti in quell’ anno, essendo Arcivescovo di Sorrento Domizio Falangola, furono gettate le fondamenta ed edificata quella Chiesa che a nostra memoria è la Metropolitana. Tuttavia, essendo assai angusta, nell’ anno 1510 l’ ampliò e la portò alla grandezza che ora appare il Cardinale Romolino Arcivescovo di Sorrento, allora Vicerè di Napoli, e poco a poco gli altri Arcivescovi ebbero cura o di restaurarla o di adornarla, come poterono, ed infine noi l’ abbiamo resa più elegante e, dopo aver dipinto la facciata ed ornato di marmi l’ interno, l’ abbiamo decorata con ornamenti d’ oro e con quadri, così da sembrare aver assunto un aspetto nuovo ed assolutamente più bello e diversa dall’ antica” (2).
Da quanto appena riportato risulta evidente che, agli inizi del XVIII secolo, Monsignore Filippo Anastasio – forte anche della autorevolezza ecclesiastica già richiamata – volle, con ragionamenti logici abbastanza convincenti, smentire seccamente la possibilità che la Chiesa del Monastero di San Renato potesse mai essere stata Cattedrale.
Molto meno convincentemente, invece, lo stesso Patriarca Antiocheno volle avvalorare la tesi secondo la quale i lavori di costruzione della Chiesa Metropolitana che porta il titolo di S. Filippo e Giacomo sarebbero iniziati attorno al 1450, decretando in maniera perentoria che, in precedenza, la Chiesa Cattedrale fu quella oggi conosciuta con il nome dei santi Felice e Baccolo.
La cosa, evidentemente, risultò (e risulta) assai poco convincente anche perché l’ asserzione dell’ Anastasio non essendo confortata da alcun genere di argomentazione, assunse più le sembianze di verità dogmatica che non quelle di realtà storica.
Non a caso su questi ultimi aspetti, Bartolommeo Capasso, sia pure in maniera garbata, diede vita ad una indiretta e velata polemica affermando: “La Chiesa Cattedrale Metropolitana è dedicata ai SS. Apostoli Filippo e Giacomo minore. Secondochè attesta il Patriarca Antiocheno fu fondata nel sito, ove attualmente si vede da Domizio Falangola circa il 1450” (3). Ma a noi pare opera assai più antica di quest’ epoca, poiché nell’ iscrizione di Roberto Brancia di sopra riportata si fa parola di un altare, e del coro edificati da esso Arcivescovo in questa Cattedrale circa 50 anni prima e nelle antiche visite si trova qualche memoria di molte cappelle ivi poste, e degli annessivi obblighi di messe, la di cui fondazione è anteriore al 1450” .
Ed anzi, sempre sull’ argomento, lo stesso autore volle spingersi ancora oltre nell’ ipotizzare una edificazione ancora più remota della attuale “chiesa maggiore”. In questo senso, infatti, aggiunse che essa esisteva: “Forse da tempi antichissimi poiché circa il 1210 il celebre Cardinale Pietro Capuano tornando da Costantinopoli con varie reliquie donò a Sorrento quella di S. Giacomo Apostolo, il che fa supporre essere la cattedrale già ai detti Apostoli dedicata” (4).
Quest’ ultima osservazione – per certi versi e sebbene non suffragata da altro se non da semplici congetture – è destinata a rivelarsi assai prossima alla realtà.
In realtà la querelle che vide interessata tanto la Chiesa del Monastero di San Renato, quanto quella dei Santi Felice e Baccolo, quali possibili detentrici del titolo di Cattedrale di Sorrento, è ricca di sfumature e di versioni bibliografiche (5) alternative (o ripetitive) rispetto a quelle proposte in questa sede. Tuttavia si ha motivo di ritenere che una loro più approfondita disamina si riduca ad un mero esercizio accademico, non potendosi da esse ricavare alcun significativo contributo all’ accertamento della verità storica.
Un dato, infatti, è certo: fino ad epoche relativamente recenti non è stato considerato, né utilizzato, un solo documento che fosse in grado di avvalorare le tesi sostenute da ciascuno.
E’ questa la ragione per la quale, prima di proporre una soluzione alternativa, sembra opportuno chiarire le ragioni che spingono a credere quasi completamente destituite di ogni fondamento le ipotesi finora considerate per individuare la Cattedrale paleocristiana di Sorrento. E, dunque, occorre verificare quanto attendibili possano essere le informazioni di cui si può disporre a proposito dei due edifici sacri rispetto alla loro presunta dignità di “chiese maggiori
Fabrizio Guastafierro
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Note:
1 Sulla figura del Patriarca Antiocheno, si è soffermato Antonino Trombetta in “La Penisola Sorrentina – Lineamenti storici”, pubblicato a Casamari nel 1986. In appendice a quest’ opera, infatti, a partire da pagina 163. l’ autore si sofferma tanto su note biografiche relative all’ Arcivescovo Sorrentino, sia sulle sue opere di pensiero e sia sulla vertenza giurisdizionale che lo vide impegnato con il governo napoletano.
Sebbene in maniera più sintetica, risulta interessantissimo, in ogni caso, quanto scritto da Pasquale Ferraiuolo in “La Chiesa Sorrentina e i suoi Pastori” (pubblicato a Castellammare di Stabia da EIDOS Nicola Longobardi Editore, nel 1991, grazie alla Venerabile Congregazione dei Servi di Maria di Sorrento”.
Da pagina 189 a pagina 196, infatti, si legge: “FIILIPPO ANASTASIO
1699 – 1724
Con la morte di mons. Didaco Petra, papa Innocenzo XII chiamò a reggere la sede sorrentina il napoletano Filippo Anastasio.
Questi era nato il 25 gennaio 1656 da Ludovico, cancelliere giudiziario e da Anna Maria Tolosa.
Fin dalla fanciullezza dimostrò grande passione per lo studio: a soli dieci anni già conosceva molto bene il latino, al quale dopo due anni si aggiunse il greco.
Da giovane studiò filosofia presso i padri gesuiti di Napoli, frequentando contemporaneamente la facoltà di giurisprudenza e seguendo le lezioni del celebre professore Francesco Verde, che in seguito” diverrà Vescovo di Vico Equense.
Nello stesso periodo iniziò lo studio della teologia. sotto la sapiente guida dei padri gesuiti Giovanbattista Guarino, Antonio Palmieri ed Ignazio Tellino, scegliendo lo stato ecclesiastico. Nei primi anni della sua ordinazione sacerdotale, si dedicò in modo speciale alla sacra predicazione girando per tutto il regno, essendo molto richiesto per la sua proverbiale eloquenza.
A causa dell’ incessante applicazione allo studio, soffrì di una breve infermità e, durante la convalescenza) per distrarsi, cominciò a interessarsi alla letteratura amena, cimentandosi anche in questo campo, ove si dimostrò felice scrittore.
Anche la fisica e la matematica furono materie a lui care, tanto che scrisse in ottava rima il sistema di Cartesio. La fama della sua scienza giunse al Viceré di Napoli il Connestabile Colonna, che lo volle, a soli trentatré anni, professore di diritto civile all’ Università di Napoli, incarico che ebbe solo per poco tempo, perché gli venne revocato, in seguito a numerosi ricorsi, dal nuovo viceré, il Conte di Santo Stefano che, in cambio gli assegnò la cattedra di diritto canonico.
Negli anni 1685-86 ebbe modo di viaggiare molto per l’ Italia, conquistandosi ovunque la stima e l’ ammirazione di vari dotti dell’ epoca; amicizie che conservò e mantenne in seguito, con una continua e fitta corrispondenza epistolare, specialmente con il direttore della biblioteca medicea di Firenze, Antonio Magliabechi.
Per i suoi meriti, l’arcivescovo di Napoli, card. Giacomo Contelmo, lo nominò canonico della Cattedrale napoletana, segnalandolo nel 1698 alla Santa Sede.
Il 12 aprile 1699 lo stesso papa Innocenzo XII lo consacrò a Roma, all’ età di quarantaquattro anni, vescovo, assegnandolo alla sede sorrentina, che raggiunse dopo qualche mese, accolto con straordinarie manifestazioni di giubilo da parte del clero, della nobiltà e del popolo. Qui iniziò un intelligente lavoro apostolico, scegliendosi come vicario generale D. Onofrio Donnorso. (Capasso B. 1854)
La chiesa sorrentina deve grande riconoscenza a questo arcivescovo, non solo per i doni della sua vasta cultura, ma per i meriti che ebbe presso pontefici e sovrani, che gli permisero, durante il suo lungo e travagliato governo, di elevare molto le condizioni sociali, spirituali e culturali dell’ intera penisola.
Suo primo obiettivo fu il restauro e l’ ampliamento del Seminario, usufruendo dei capitali provenienti dall’ incameramento delle rendite della soppressa abazia di San Pietro alla Marina Grande. Tali proventi gli consentirono anche di incrementare lo studio delle lettere e delle scienze con la scelta di valenti professori, tra cui il prestigioso Nicola Giannattasio dei padri Gesuiti.
Contemporaneamente operò per il rinnovamento dei monasteri esistenti in diocesi, e per il restauro di molte chiese, che erano state danneggiate dagli ultimi terremoti.
Non si stancò mai di spronare i vari incaricati mediante una costante opera pastorale a rendere sempre più belle, splendenti e decorose, le chiese da essi amministrate.
Speciale attenzione riservò alla sua Cattedrale, curando il rifacimento della cappella Brancia, ove abbellì la grande vasca battesimale, arricchendola di marmi policromi nella parte superiore e ponendo sulla sommità della cuspide il suo stemma.
Fece completare, nel 1711, con altri dipinti, la decorazione del soffitto della navata centrale e del presbiterio. Suo è il ritratto eseguito da Francesco Francareccio, che si nota prima dell’ arco maggiore. I quadri centrali furono invece realizzati da Nicola ed Oronzo Malinconico, ai quali erano stati commissionati dal defunto mons. Petra.
Per suo volere, le tele che rappresentano i Santi Filippo e Giacomo e quella centrale della gloria della Madonna Assunta, posta nel soffitto del presbiterio, furono dipinte da Giacomo del Pò.
Anche la facciata esterna venne rifatta, a sue spese, su disegno di Bernardino Fera, noto architetto del tempo. (Archivio Capitolare)
Abolì saggiamente il diritto di patronato di molte cappelle sorrentine in abbandono, evolvendo le rendite e le cappellanie in favore della Cattedrale. (Visita pastorale)
Anche iI palazzo arcivescovile fu interamente restaurato per suo volere.
Elargì un cospicuo contributo finanziario ai monaci Agostiniani nel 1714, per consentire l’ inizio di quel restauro dell’ Annunziata, che avrebbe modificato radicalmente lo stile architettonico della chiesa. Quei lavori furono necessari per i gravi danni causati dal terremoto del 27 luglio 1695. (Fasulo M. 1906)
Donò alla nascente Congregazione dei Servi di Maria, da lui canonicamente riconosciuta nel 1722, I’ antica cappella di San Barnaba alle spalle della Cattedrale, che era passata alla Mensa Arcivescovile dopo la morte dei Patroni Mastrogiudice Marchesi di San Mango. Per tale cappella ordinò la chiusura dell’ accesso dalla Cattedrale e fece realizzare una nuova apertura dalla via Parsano. (Fasulo U. 1942)
Contemporaneamente incrementò con grande zelo la vita religiosa in diocesi; istituì un’ associazione di sacerdoti” che si recavano frequentemente a tenere missioni al popolo, specialmente nelle contrade montane, e si adoperò affinché in ogni borgo o centro rurale, come nelle città, sorgessero Confraternite laicali o Monti per il suffragio dei fedeli defunti. Visitò periodicamente le parrocchie, tenendovi un’assidua predicazione e favorendo l’ istituzione di maritaggi per le giovani indigenti del posto.
A tanto fervore di opere ed a tanto bene, nessuno, come questo presule, ricevette in cambio ingiustizie, calunnie e dolori. Chi gli rese la vita difficile furono gli economi laici della Chiesa di Sant’ Agnello, che sostennero con tale impegno le proprie ragioni, da provocare un grave dissidio tra l’ autorità civile e quella religiosa, coinvolgendo nelle loro polemiche il papa, il re di Spagna Filippo V e perfino Luigi XIV Francia.
Causa di tanta lite fu il fermo rifiuto alle richieste dell’ arcivescovo che gli economi di detta chiesa opposero, durante la Visita Pastorale compiuta verso il 1700.
Essi infatti non vollero presentare i rendiconti della loro gestione finanziaria, come invece prescriveva il Concilio di Trento, sostenendo che la chiesa di Sant’ Agnello, essendo una regia estaurita, era tenuta ad esibire i conti e gli elenchi dei propri beni, solo all’ autorità civile e non a quella ecclesiastica. (Trombetta A. 1986)
Allo spavaldo diniego degli economi di Sant’ Agnello, ben presto si unirono quelli delle chiese parrocchiali di Piano, Mortora, Trinità e Meta, anch’ esse regie estaurite.
Di fronte a tale presa di posizione, mons. Anastasio li invitò pubblicamente ad obbedire alle prescrizioni conciliari, ma, come era facilmente prevedibile, essi ricorsero al delegato della reale giurisdizione che, con propria lettera, intimò all’arcivescovo di rimuovere le ammonizioni fatte agli economi, comandandogli di non infastidire e di liberare da ogni imposizione ecclesiastica, gli amministratori delle regie estaurite.
Mons. Filippo Anastasio, visto vano ogni tentativo di comporre bonariamente la questione, nel febbraio 1702 scomunicò tutti gli amministratori delle cinque chiese del Piano.
Tale doloroso atto era stato voluto da papa Clemente XI, che aveva esortato il presule sorrentino ad essere fermo nella decisione di non recedere nella richiesta di pubblica riparazione per l’ offesa subita e per la violazione della dignità arcivescovile.
Ma il viceré di Napoli, a cui gli scomunicati erano nuovamente ricorsi, fu di diverso parere, e il 20 maggio 1703, inviò a Sorrento il giudice della Vicaria criminale, don Emanuele D’ Espetal, per l’ immediato sequestro di tutte le rendite dell’ arcivescovo e l’ ordine d’ esilio dal regno di Napoli.
A tale perentorio ordine mons. Anastasio, che in quei giorni era infermo e febbricitante, perse la pazienza e reagì violentemente. Secondo una testimonianza del tempo, “monsignore lo rimproverò con molte ingiurie, lo scomunicò e gli voltò le spalle”; poi, indossate le vesti pontificali, processionalmente si recò ad affiggere con le proprie mani alla porta della città ed al Sedile di Dominova la bolla di scomunica per il povero D’ Espetal, per i suoi aiutanti e per quanti avevano ordinato il proprio esilio, colpendo anche col suo interdetto la città e la diocesi. (Fasulo M. 1906)
Tre giorni dopo, il giudice ritornò con cinquanta soldati spagnoli e trenta uomini armati, i quali posero l’ arcivescovo contro il suo volere su una portantina e lo condussero alla Marina Piccola, ove, tra la generale confusione, le lacrime e le invettive del popolo accorso ai rintocchi di tutte le campane della città, lo imbarcarono su una feluca scortandolo fino ai confini di Terracina, in forzato esilio.
Il papa accolse amorevolmente il presule sorrentino, aiutandolo anche finanziariamente, e diede al Nunzio di Napoli l’ ordine di scomunicare il Viceré con l’ intero Consiglio Collaterale. Intanto Sorrento ed il Piano restavano interdetti: non si potevano celebrare messe e non si amministravano i sacramenti, mentre i defunti venivano sepolti fuori dalle chiese e senza preti. (Capasso B. 1854)
A nulla valsero le molte petizioni inviate dai nobili sorrentini al papa per chiedere la revoca dell’ interdizione alle chiese esistenti nelle mura cittadine o almeno alla sola Cattedrale, ma il pontefice fu irremovibile.
Per quattro lunghi anni continuò questo increscioso stato di cose, finché mons. Anastasio, il 21maggio 1707, tolse finalmente l’ interdetto alla diocesi su ordine di Clemente XI, in seguito alla sottomissione del Viceré di Napoli e del suo Collaterale al volere pontificio.
Si dovette però attendere fino al 1710, quando, sopita ogni contesa ed appianato ogni ostacolo, mons. Filippo Anastasio poté far ritorno a Sorrento accolto con grandi feste da tutto il popolo.
Durante la sua forzata assenza, la chiesa sorrentina venne retta, per l’ ordinaria amministrazione, dall’ arcidiacono Correale. Al suo rientro in diocesi, l’ intrepido pastore cercò in più riprese di affermare il proprio diritto sul controllo dei beni delle cinque chiese estaurite del Piano; ma la Santa Sede, questa volta, gli impose maggiore prudenza, vietandogli di riprendere la Visita Pastorale che era stata così drammaticamente interrotta.
Questo fatto gli procurò grande dolore tanto da presentare in svariate occasioni le proprie dimissioni.
Il papa, che aveva avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne le grandi virtù, lo aveva nel 1717 nominato Prelato Domestico ed Assistente al Soglio Pontificio, offrendogli invano le diocesi di Manfredonia, Conza e Rosciano in cambio della sede sorrentina.
Nel 1720 il Pontefice Innocenzo XIII gli assegnò la pensione sulla chiesa di Conza, dandogli le Abazie di San Pietro a Crapolla, nel territorio di Massa Lubrense, e quella di San Pietro a Cermenna, le cui rendite erano sempre state godute da prelati stranieri. Mons. Anastasio in un primo tempo esitò ad accettarle, ma in seguito, dopo aver ascoltato il parere del cardinale Paolucci, Segretario di Stato, diede il suo assenso, disponendo che le rendite di tali abazie commendatarie, passassero in perpetuo al Seminario Arcivescovile di Sorrento. (Capasso B. 1854)
In seguito, dopo altre fiere opposizioni, sorte per la nomina di alcuni parroci nei villaggi della diocesi, e dopo inutili tentativi di rassegnare le dimissioni, si recò, nel dicembre del 1724, a Roma per consegnare la diocesi nelle mani del nuovo papa, Benedetto XIII. Questi, come il suo predecessore, gli offrì la sede di Cosenza, ma l’ arcivescovo sorrentino, ancora una volta rifiutò cortesemente, dichiarandosi stanco e debilitato per le peripezie vissute nei venticinque anni trascorsi alla guida della nostra chiesa.
Il papa accolse, questa volta, la sua richiesta, onorandolo con il titolo di Patriarca d’ Antiochia e nominandolo esaminatore dei vescovi.
Vivendo a Roma e non essendo gravato da faticose incombenze, poté finalmente dedicarsi con più calma e serenità agli amati studi, pubblicando molte sue opere.
Già nel 1724 era uscito il volume “APOLOGIA DELL’ ARCIVESCOVO DI SORRENTO”, di autore anonimo (interessantissimo sia per il diritto canonico che per la storia di Sorrento) in cui, con erudite argomentazioni, veniva difeso l’ operato del presule sorrentino ed il suo diritto di esaminare i conti delle chiese del Piano. Quest’ opera fu, da tutti, facilmente attribuita a mons. Anastasio.
In seguito compose le Lezioni e l’ Ufficio dei santi patroni di Sorrento, lavoro che gli era stato richiesto con insistenza dai sorrentini; inoltre, nel 1731, diede alle stampe i due celebri volumi dal titolo: “LUCUBRATIONES IN SURRENTINORUM CIVILESQUE ANTIQUITATES ” in cui, oltre ad illustrare le vicende riguardanti le antichità storiche, ecclesiastiche e civili di Sorrento, espose con vasta erudizione critica l’ epoca e la vita del santo patrono Antonino. (De Martino F. 1901)
Scrisse molti altri libri su argomenti vari, come poemi, panegirici, orazioni sacre, lezioni varie di matematica, d’ idrografia e geometria, canzoni e rime, da cui emerge il suo multiforme ingegno. II Mazzucchelli, nel suo libro “Scríttori d’Italia”, affermò che mons. Filippo Anastasio era “uno dei più celebri letterati che siano stati sulla fine del passato e sul principio del prossimo secolo”. (Capasso B. 1854)
Il Patriarca d’ Antiochia si spense serenamente a Roma all’ età di settantanove anni, il 10 maggio 1735.
Il cappuccino padre Giacco, tenne l’ orazione funebre, stampata poi nel libro ” Orazioni Sacre” .
Venne sepolto nella chiesa di San Francesco di Paola ai Monti, essendo questa la parrocchia da lui frequentata negli ultimi anni romani”.

2 La traduzione del testo originale in latino è stata curata dal Dottor Donato Sarno. Il brano è tratto dall’ opera intitolata “Lucubrationes in Surrentinorum Ecclesiasticas Civilesque Antiquitates” di Monsignor Filippo Anastasio che fu pubblicata a Roma nel 1731, presso « Typis Johannis Zempel prope Montem Jordanum.
A partire dalla pagina 312 della prima parte di questo del lavoro di quello che gli storici locali indicano anche con il nome di Patriarca Antiocheno, infatti, si legge: “VI Accedit ad rei confirmationem in Actis Sancti Renati legi eumdem Surrentinis oris appulsum in eam solitudinem decessisse, ubi tradizio est primum Episcopale tempulm, seu potius cryptas fuisse, & Surrentinis veteribus Christianis tempore persecutionum perfugium; quo in loco dicitur sibi aediculas ipse sanctus Renatus ad habitandum comparasse. Quod si non adguc intra urbem Episcopale templum translatum erat, non equidem in solitudine S. Renatus concessisset, quippe qui cum Episcopo, & aliquibus saltem Christianorum ibi conversatus fuisset; neque sibi nocesse eras aediculas edificare; quum saltem in ipsa cripta, ut erat aliis locus, ita & sibi esse poterai. Sancti Renati igitur aetate Sorrentina civitas suavi Christianae legis jugo colla jam subdiderat; quod confirmari videtur ex ipsius sanctis Actis, & ex officio, in quibus legitur palam, & pubblico consilio ipse sanctus Renatus in Episcopum cooptatus.
VII At, si dices sancti Renati tempestate Christianam fidem fuisse quidam publice amplexam a Sorrentina civitate: sed Episcopum nondum intra urbem translatum; id nullam prae se verosimilitutinem tulerit. Si enim id tempori Sorrentina respublica Christianis saris jam iniziata Episcopalem Ecclesiam intra moenia non habuisset, praeterquamquod id est a verosimilitudine alienum, certe vetus Episcopium tempore persecutionum clam frequentari solitum, tunc saepius in dies adiissent cives. Qui igitur sanctus Renatus in solitudine delituisset? Quei locum occultum, desertumque, ac dumis, vespribusque obsitum incoluisset? Surrentinae ergo urbis traditionii sub Costantini Magni tempora, aut paiolo post Episcopium intra moenia illatum, adeoque ea aetate templum illud Idolorum Divo Felici Nolano consecratum asserenti nonnhil ponderis etiam a conjecturis accedit. Haec tamen accipiant lectores, ut volent; in rebus enim adeo obscuris nihil certius ergere potuimus.
VIII Certum templum hoc sub nomine sanctorum Felicis, & Baculi Ecclesia Cathedralis sempre extitit usque ad annum fere 1450., ut putat Hieronimus Sersalis; hoc enim anno Somitio Falangola Sorrentino Archiepiscopo fondamenta jacta fuere, atque edificata ea Ecclesia, quae nostra memoria Metropolitana est. Eam tamen, quum angusta nimis esset, latius explicavit, & in eam magnitudinem, qua nunc patet, prolatavit anno 1510. Cardinalis Remolinus Archiepiscopus Surrentinus, tum Neapolitanus Prorex, & palatium alii Archiepiscopi vel restaurare, vel adornarem ut ut potere, studuerunt, & postremo nos in elegantiorem formam redegiunus, ac picturata fronte, & intus mormorato, auratis ornamentis, picturisque ita decoravimus, ut novam, ac nitididiorem omnino facies, & aliam ab antiqua induisse videatur”.

3 Bartolommeo Capasso, ad esempio, al riguardo – in Memorie Storiche della Chiesa Sorrentina (edito per la prima volta a Napoli nel 1854 dallo Stabilimento dell’ Antologia Legale e più recentemente ristampato, in copia anastatica, da Forni Editore di Bologna) pagine 124 e 125.

4 Bartolommeo Capasso, ad esempio, al riguardo – in Memorie Storiche della Chiesa Sorrentina (edito per la prima volta a Napoli nel 1854 dallo Stabilimento dell’ Antologia Legale e più recentemente ristampato, in copia anastatica, da Forni Editore di Bologna) nota riportata a pagina 124.

5 In questo senso ampie e dettagliate indicazioni bibliografiche sono rinvenibili in Antonino Cuomo, “Bibliografia dell’ Antica Arcidiocesi di Sorrento”, pubblicato a Castellammare di Stabia da Edizioni Eidos – Nicola Longobardi editore, nel 1996.