... ALL OTHER SCRIPTS MUST BE PLACED BELOW Non solo cimitero di San Renato | Il meglio di Sorrento

San Renato non è solo il cimitero, ma molto di più

Parlare di San Renato, oggi, a Sorrento, equivale all’ impegnarsi in discorsi capaci solo di richiamare alla mente degli interlocutori i tristi e malinconici, ricordi che sono collegati al locale camposanto noto, per l’ appunto, con il nome di “Cimitero di San Renato”.
Niente di più.
Pochi, infatti, sanno o ricordano che proprio il luogo dove, ormai da oltre un secolo, i sorrentini trovano la propria ultima dimora si chiama così perché, quasi nello stesso posto, un tempo si ergeva un monastero con la stessa intitolazione e dove, forse, molto più anticamente, visse proprio San Renato.
Eppure, una volta, non era così.
Basti dire che, nell’ ultimo quarto del cinquecento il cenobio benedettino che portò il nome del primo Santo Patrono della Terra delle Sirene, non solo (nel 1577) ospitò Torquato Tasso (1), ma conservò un posto di riguardo nel cuore e nei ricordi del celeberrimo poeta sorrentino. Questi, infatti, nell’ ambito di una fitta corrispondenza intrattenuta con Don Angelo Grillo di Brescia non mancò né di esprimere il suo desiderio di ritornare proprio nel convento di San Renato (“….laonde non potendo andar nel Regno, e trattenermi qualche mese in S. Renato, o in S. Severino, o alla Cava, come vorrei piuttosto…”) (2), né di esprimere la sua nostalgia per la sua città natale, in generale e per il Monastero di San Renato, in particolare (“…Ho sempre Sorrento, e San Renato nell’ immaginazione…..”) (3).
A quell’ epoca il monastero, dopo alterne vicissitudini che lo videro, prima, ossequiente alla regola benedettina (anche perché dipendente dall’ Abbazia di Montecassino), poi, nel XIII secolo, alla regola florense (unitamente al Monastero di S. Angelo a Rovigliano) e quindi di nuovo a quella benedettina, era da poco passato dalla diretta soggezione alla già richiamata Abbazia di Montecassino, alla subalternità rispetto al Monastero napoletano dei Santi Sossio e Severino.
A dispetto delle apparenze, e di quanto asserito da alcuni, lo stesso monastero attraversava ancora un periodo di grande opulenza, così come si può ricavare tanto dal “Libro delle rendite di San Renato” (per il periodo compreso tra il 1554 ed il 1559) (4), quanto dalla “Ricognizione delli censuarii del Monastero di San Renato” (relativa al 1554) (5).
E non solo.
Appena pochi anni dopo, infatti, – tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo – “una nuova e più sontuosa chiesa prese il posto dell’ antico edificio ritenuto inadatto ed insufficiente per il culto. Durante i lavori di smantellamento del vecchio altare maggiore furono rinvenute due cassette di piombo contenenti ossa e polvere” (6) che vennero individuate come le reliquie di San Renato e San Valerio e sistemate nel nuovo santuario.
L’ evento – risalente al 1603 – venne consegnato alla storia con la predisposizione di una lapide (oggi ancora visibile nella Cattedrale, all’ interno della Cappella dedicata a Sant’ Antonino Abate) che riporta questa iscrizione:

Alexandrum Cardinalis Florentinus
Sanctorum Episcopus, Re-
nati, et Valerii Surrentinae ci-
vitatis, eiusque patronorum cor-
pora, quae sub primario altari Ba-
silicae veteris collocata fidelium
antiqua traditio credidit, atque
colit, inventa sunt sine nomine
sub eodem Altari, ne calia ab il-
lis existimata Apostolica autho-
ritate in novam Ecclesiam trans-
lata sub primario ibidem Altari
sunt solemni ritu recondita a
Monachis huius Monasterii Con-
gregationis Casinensis Anno sa-
lutis MDCIII die XIII
Novembris, ex decreto Apostoli-
cae Congragationis Sacrorum Ri-
tuum sub die XXI Augusti
MDCIIII

A prescindere dalle ricchezze di cui era dotato il monastero e dalla scoperta dei resti mortali che, probabilmente, furono troppo frettolosamente riconosciuti come reliquie di San Renato e di San Valerio, è da aggiungersi che la struttura conventuale aveva raggiunto l’ apice della sua fama.
Nello stesso anno in cui Torquato Tasso fu ospite del cenobio benedettino (1577), fu pubblicato, il libro intitolato “Quinque divi custodes ac praesides urbis Surrenti”, di Davide Romei, dal quale sembra prendere origine la leggenda, per effetto della quale, a lungo si è creduto che la Chiesa dello stesso monastero di San Renato possa essere stata la prima Cattedrale Sorrentina.
Fatto è che agli inizi del 1800 la storia, probabilmente millenaria, di questo importante complesso monastico conobbe la parola “fine”.
In occasione della pur breve dominazione napoleonica, infatti, Giuseppe Bonaparte (Re di Napoli prima di diventare Re di Spagna e di lasciare il posto a Gioacchino Murat) decretò la soppressione di quasi tutti le strutture monasteriali del Regno delle due Sicilie al fine di incamerarne i beni e le rendite.
A differenza di altre strutture simili, per il Monastero di San Renato fu un autentico colpo di grazia.
Volendosi attenere ad una sommaria descrizione risalente al 7 marzo del 1807, in cui, per l’ appunto, si faceva riferimento allo stato in cui si trovavano la Chiesa ed il monastero di San Renato all’ atto della decretata soppressione, apprendiamo quanto segue: “Il monastero, ossia casa della grancia di San Renato di Sorrento, consiste in un piano accosto alla Chiesa del medesimo; in dove entrandosi per una porteria si sale con pochi gradini in un corridoio che forma un quadrato, la dritta del quale fiancheggia la chiesa, e donde si passa tanto nella medesima quanto nella sacristia.
Alla sinistra del quadrato suddetto per altro corridoio a mezzogiorno si introduce in tre quartini di due stanze per ciascuno. Ne segue l’ altro lato a ponente, nel quale sonovi tre simili quartini; essendo l’ ultimo lato a settentrione occupato dal refettorio, cocina e dispensa.
Si passa indi di colà nel campanile e nel coro della chiesa medesima.
Il di sotto di tai fabbriche si occupa dal cellaio, strettorio ed altri vani, de’ quali buona porzione appartengono di proprietà ai fratelli Paturzo fu Don Ludovico.
La fabbrica benché negli abbellimenti sia tutta riattata anche nei tetti, ciò non ostante per il sito umido e per la sua antichità non è molto buona; né sembra atta a potersene fare locazione alcuna, anche perché molto al di fuori dell’ abitato.
Vi sono tutte le vetrate riattate e tinte nuovamente come anche quella della chiesa, riattate a proprie spese dall’ ultimo priore Sersale.
La chiesa ha un coro di legno a vari sedili con cinque altari, due de’ quali il maggiore cioè e quello di San Benedetto sono in marmo e sotto il maggiore vi si conservano i corpi de’ Santi Renato e Valerio.
Piano di Sorrento, lì 7 marzo 1807” (7)
In breve tempo la struttura – prima di approssimarsi ad una quasi definitiva scomparsa – cadde in uno stato di totale abbandono così come testimoniato dai dipinti, dagli schizzi e dagli acquerelli di Duclère e di Correale (risalenti alla seconda metà del XIX secolo) che oggi sono custoditi presso il Museo Correale di Terranova di Sorrento e che – per quanto è dato sapere – offrono le uniche immagini superstiti dell’ antico monastero.
Desolante poi è il quadro della situazione che ci è stato conservato alla fine dell’ 800, (e più precisamente nel 1895) quando, in occasione del III centenario della morte di Torquato Tasso, l’ amministrazione comunale di Sorrento, nel proporre un album riservato all’ evento volto a commemorare l’ autore della Gerusalemme Liberata, ritenne di dedicare attenzioni anche al Monastero di San Renato.
In questo senso, tra l’ altro, si ebbe modo di evidenziare quanto segue: “La vecchia basilica era angusta e, quasi caverna, incavata nel tufo, di guisa che i Cassinesi nei principii del secolo XVII cercarono di edificare una nuova e più grande basilica accanto all’ antica.
Poscia nel principio di questo secolo, aboliti gli ordini religiosi ed indi nel 1821 trasferite le reliquie dei Ss. Vescovi nel Duomo, l’ una e l’ altra basilica restarono deserte ed abbandonate, e la tenuta ai Benedettini appartenente fu venduta ai privati.
Fino a pochi anni fa, la più antica per metà interrata era il cellaio di uno dei poderi, in cui la monacale tenuta venne divisa. E sotto la muffa dell’ umido che covriva le pareti, e tra le frequenti calcinature si vedevano tutt’ora i resti di alcune pitture, indizio del tempio antichissimo e venerato. E si notavano pure, a sinistra dell’ ingresso, nella parte superiore di un arco, specie di abside, la Vergine col Bambino lattante tra le braccia, e nei peducci del medesimo, da un lato le tracce di una figura, probabilmente S. Paolo, e dall’ altro l’ immagine meglio conservata di un vescovo piuttosto giovane e barbuto, vestito di abiti pontificali alla foggia greca, e con la mitra di quella forma, che usatasi nei tempi più antichi della Chiesa. Altre pitture si osservano a dritta, ove nell’ arco era pur anche raffigurata la Vergine col Bambino in grembo, e con alcuni santi ai due lati, i cui nomi, scritti verticalmente, indicavano a dritta dello spettatore S. Silvestro e Santa Caterina, a sinistra S. Pietro e S. Renato. Al di sopra dell’ arco poi vedevasi l’ agnello kistico e leggevasi le parole in parte cancellate del motto: – Ecce Agnus Dei…. tollit… S. Joh. Evg.
Della nuova chiesa esistevano solamente le mura tronche a metà, la facciata e la porta di ingresso. Essa coll’ atrio che la precedeva, fu adibita a pubblico sepolcreto per i morti di colera asiatico nel 1837.
Del monastero finalmente rimanevano il chiostro mezzo interrato ed ingombro di rottami; il porticato, che lo cingeva con una montanina, costruita verso i principi del secolo XVI dall’ abate Marcantonio Fiodo; la porta e la scala con le celle ed i corridoi in rovina, ed un bel campanile, sulla forma di quello del Duomo, tutt’ ora in buono stato.
Ora per deliberazioni del Consiglio Municipale del 1870 e del 1876 tutto è stato abbattuto e distrutto per dar luogo al nuovo Camposanto civico”.
Da quel momento in poi, l’ inarrestabile corsa verso una inesorabile scomparsa è divenuta irreversibile.

Fabrizio Guastafierro

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Note:
1 Riccardo Filangieri di Candida, “Sorrento e la sua Penisola”, pubblicato a Bergamo nel 1929, dall’ Istituto Italiano d’ Arti Grafiche Editore (pagina 80): “Fuggitivo dalla corte estense, che dopo di averlo allettato nel suo sogno aureo di poeta cortigiano lo aveva colmato di amarezze, egli ritornò in Sorrento nel 1577 per cercarvi Ia quiete dello spirito presso sua sorella, che vi dimorava, già vedova di Marzio Sersale. E qui, per la solitudine canora delle coste o nella remota tranquillità del cenobio di san Renato, provava il balsamo materno della pace”.

2 “Delle Opere di Torquato Tasso con le controversie sopra la Gerusalemme Liberata”, pubblicato a Venezia nel 1738, pagina 37 del nono volume.

3 “Delle Opere di Torquato Tasso con le controversie sopra la Gerusalemme Liberata”, pubblicato a Venezia nel 1738, pagina 37 del nono volume.

4 Il voluminoso manoscritto è custodito presso l’ Archivio di Stato di Napoli, nell’ ambito del Fondo delle corporazioni religiose soppresse ed è catalogato con il numero di busta 1801.

5 Il manoscritto è custodito presso l’ Archivio di Stato di Napoli, nell’ ambito del Fondo delle Corporazioni religiose soppresse all’ interno di un volume catalogato con il numero 1805.

6 Pasquale Vanacore – “San Renato di Sorrento – tra leggenda e storia, documenti e testimonianze” – Pubblicato nel 1999 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore per conto della parrocchia di Moiano, pagine 28 e 29.

7 Il documento, custodito presso l’ Archivio di Stato di Napoli, nel Fondo Monasteri soppressi, fascio 5534 e riportato da Pasquale Vanacore, “San Renato – tra leggenda e storia, documenti e testimonianze”, pubblicato a Castellammare di Stabia, da Nicola Longobardi editore, nel 1999 – pagine 88 e 89