Vari aspetti circa la Chiesa dei Santi Felice e Baccolo
Capitolo III
Quasi sempre la narrazione di miti, miracoli e leggende, anche quando conserva un fondamento di verità, conferisce alle narrazioni storiche il fascino, l’ appeal ed i colori tipici della favole, ma altera quasi irreversibilmente la realtà d’ origine (dalla quale in teoria dovrebbe prendere spunto il racconto) e finisce con il procurare “incrostazioni” che, soprattutto con il passare del tempo fanno perdere – o almeno compromettono – la memoria di fatti ed eventi accaduti, così come fanno perdere le tracce dell’ epoca in cui, effettivamente, essi si verificarono.
Quando poi queste narrazioni – senza alcuna cautela vengono trasformate in fonti utili per ricostruire la storia, si generano i presupposti affinché clamorosi equivoci finiscano per alterare, quasi definitivamente la realtà.
Le ricerche storiografiche su Sorrento, più ancora degli effetti procurati dalla scomparsa di buona parte del suo patrimonio documentario, spesso, scontano le conseguenze di un tal genere di equivoci.
Tra i tanti casi a cui è possibile fare riferimento in questo ambito, figura certamente quello della chiesa dei Santi Felice e Baccolo di Sorrento.
Il fatto che si tratti di un edificio sacro particolarmente antico non può essere oggetto di discussione.
Tuttavia fanno sorridere i tentativi finora esperiti nella speranza di ricavare ed accreditare l’ epoca della sua prima edificazione in ragione di una leggenda che unisce il sacro al profano e che è stata proposta in varie versioni da varie “fonti” bibliografiche (1).
Molti, in effetti, sono stati gli scrittori che hanno trattato in maniera più o meno approfondita l’ argomento, ma riteniamo che leggenda di cui si parla sia da leggere con mille precauzioni.
Tutti (a partire dall’ Ughelli), in ogni caso, in maniera più o meno dettagliata e più o meno diretta, riportano la notizia secondo la quale fu un principe di Sorrento che una notte, essendosi nei demoni che infestavano il luogo dove un tempo sorgeva il Pantheon di Sorrento (ed essendo stato da loro aggredito), decise di fare abbattere gli ultimi ruderi dell’ antico tempio pagano e di far costruire, al suo posto, una chiesa che fu inizialmente dedicata al solo San Felice. Alcuni, poi, volendo retrodatare l’ avvenimento, hanno arbitrariamente sostituito la figura di un duca a quella del principe, determinando ulteriore confusione.
Ferma restando, dunque l’ esigenza di mettere in guardia chiunque sia ancora tentato dal desiderio di stabilire verità storiche utilizzando gli spunti contenuti in un racconto favoloso – che, in quanto tale, non può trovare riscontri oggettivi, né essere considerato come fonte di prova – in questa sede proponiamo la versione che, per quanto fantasiosa, sembra essere la più vicina ad una realtà che resta comunque improbabile: quella offerta da Gaetano Canzano Avarna (2).
L’ autore, infatti, pur impegnato nel resoconto di un mito, si è preoccupato di renderlo coerente ad una precisa epoca storica e di fare riferimento a personaggi realmente vissuti in quello stesso periodo. E, in questo senso ha scritto: “Tra i fasti della Città di Sorrento, principalissimo noi stimiamo doversi annoverare quello di essere stata fra le prime ad abbracciare l’ augusta Religione di Cristo.
Oltre all’antichissima tradizione, che la fede cattolica fu predicata in Sorrento dallo stesso Principe degli Apostoli, allorquando, lasciando la Cattedra di Antiochia, approdò in Brindisi, quindi ad Otranto, poscia a Taranto, e di là recossi in Napoli, ed in Roma, è indubitato che Sorrento ebbe i suoi Martiri, siccome scorgonsi segnati nel dì 19 Marzo nel Martirologio romano ed in tutti gli altri Martirologi, e siccome fa fede una lettera del santo Pontefice Gregorio Magno, il quale governando la Chiesa dal 590 al 604 di nostra salute, imponeva a Giovanni Vescovo di Sorrento di mandare a Gregorio Exprefetto le reliquie dei SS. Martiri Sorrentini.
Sarebbe impossibile precisare in qual epoca fossero avvenuti tali martiri e perché i primi della Chiesa, per le crudeli persecuzioni alle quali questa fu fatto segno, furono involti nell’ombra e nel silenzio, e perché le antiche memorie e scritture riguardanti la storia Ecclesiastica della penisola Sorrentina vennero distrutte nell’invasione musulmana. Egli è certo però che cotesto avvenimento non potè consumarsi oltre al terzo secolo, imperciocchè è noto che i funesti conflitti che aspersero la terra del sangue dei Martiri, ebbero termine nell’anno 312, allorché il Magno Costantino nell’accingersi a combattere contro Massenzio apparire dall’alto del cielo una Croce, di questo simbolo avendo decorato il Labaro imperiale ed il petto dei suoi guerrieri, ed essendo riuscito vincitore nella ardua pugna, proclamò la Religion Cattolica la dominante dell’impero.
Intanto sebbene il Cristianesimo fosse stato adottato dai Sorrentini fin dai suoi primordi, come testè abbiamo osservato, tuttavia nei primi anni del secolo XII esisteva ancora in Sorrento un tempio pagano colle sue are, e coi suoi idoli, non già per oggetto di culto, ma perché abbandonato e posto in oblio.
Cotesto tempio era situato nel prolungamento della strada detta di S. Paolo dalla Chiesa e dal monastero di monache Benedettine di tal nome, e proprio accanto all’abolita cappella di San Galeone che fu di patronato delle famiglie di Molignano, Donnorso, Sersale e Spasiano, contrada che ora tiene il nome di S. Felice e Bacolo.
Ora innanzi a questo tempio pagano la notte avvenivano frequenti apparizioni di fantasmi e di demonii, con grande disturbo e pericolo dei viandanti che per quel sito transitavano, non che dei cittadini che avevano le loro abitazioni in quei pressi, della qual cosa per tutta la Città se ne levò grandissimo lamento.
Reggeva in quei giorni la Città di Sorrento, nella qualità di Doge, Sergio II, che il documento al quale noi consultiamo, chiama Principem civitatis, figliuolo di Sergio I. della stirpe dei Mastrogiudice, che il padre aveva associato al governo fin dall’anno 1090. Egli fu l’ ultimo dei Dogi Sorrentini e probabilmente governò fino all’ ingresso in Napoli dei Normanni, dalla qual’ epoca Sorrento, cessando di avere una rappresentanza autonoma, seguì la sorte della Città Capitale. E poiché ci ritroviamo a ragionare di questo Doge, non reputiamo fuori luogo rammentare che di lui restano due monete, nel cui diritto leggesi Sergius Consul et Dux et Princips Surrenti, e nel rovescio scorgesi l’effigie di un Santo Vescovo con pastorale e diadema, che il ch: Capasso opina essere quella di S. Bacolo.
Il Doge Sergio II, fu uomo di grande animo ed ardito. Preoccupato dalle dette apparizioni e commosso dalle doglianze dell’intera Città divisò assicurarsi coi propri occhi di un tal fatto. Una sera, senza scorta, tutto solo, non avendo altra difesa che la sua buona lama damaschina ed il suo coraggio, montò a cavallo e si avviò alla volta del tempio pagano.
All’avvicinarsi del noto edificio l’aria era già scura e la via deserta, non pertanto i suoi occhi furono colpiti da un chiarore fosforescente che partiva dal tempio, quasi simile al chiarore dell’alba. Cotesto fenomeno il fece più animoso, spinse innanzi il cavallo e cercò di guadagnare tale una posizione da poter penetrare collo sguardo fin nell’interno del delubro.
Bentosto vide l’aria conturbarsi, poi leggermente addensarsi d’intorno a lui come lieve vapore, ma trasparente in modo da distinguere gli oggetti a traverso di essa. A mano a mano quella specie di vapore divenne più denso, e distaccassi in tante forme da prima indefinite, ma che poi gradatamente presero aspetto corporea, e finalmente si determinarono in tante leggiadre giovanette tutte ammantate di bianco.
Quantunque la presenza di avvenenti donzelle non fosse cosa di sua natura atta ad ingenerare terrore, tuttavia la subitanea apparizione, il modo inesplicabile come avvenne, e quello stupore che invade l’animo per tutto ciò che avvertesi fuori dell’ordine naturale ed al di sopra del proprio intendimento, cagionarono in Sergio un senso di altissima meraviglia e di sgomento. Gli si rizzarono i capelli, gli occhi si fecero immobili e rimase muto, estatico al cospetto di quelle visioni. Ad un tratto quelle donzelle si formarono in cerchio, e tenendosi strette per mano, con modi rapidissimi principiarono una vorticosa ridda intorno al Duca. Il cerchio da principio, slargato ad ogni giro che seguivano, lo stringevano sempre più, e sempre si approssimavano a Sergio, ed a misura che si approssimavano, i loro sembianti da prima sì attraenti, sì dolci divenivano felini, terribili gli occhi davano lampi fosforescenti come quelli del gatto, le unghie si allungavano e divenivano artigli e le bocche dischiuse mostravan denti aguzzi come quelli delle belve.
Il malcapitato Duca mirava quelle orribili metamorfosi con occhi attoniti; già vedeva a sé d’ appresso quelle arpie, già avvertiva il loro alito infocato, già sentiva aggraffare le sue vesti dai loro artigli, eppure rimaneva in uno stato di paralisi, d’immobilità, come impietrito.
Egli trovatasi nella medesima condizione di colui che, dormendo, geme sotto l’azione di un’ incubo: comprende il pericolo, lo vede, lo sente su di se, e pure non può eseguire un movimento, non può metter fuori una voce per sottrarsene. Alla fine con uno sforzo supremo, richiamando gli smarriti spiriti, snudò la sua spada, diè un rigoroso tratto di sproni al suo cavallo, di un sol colpo troncò di netto il braccio di una di quelle furie, ed apertosi il valico andò via.
Il dimane, con generale sorpresa fu trovato innanzi al tempio il braccio di uno di quegl’idoli, giacente per terra, e reciso con tale un taglio da non fare rivocare in dubbio essere stato prodotto da un ferro affilatissimo.
Convinto Sergio della verità di quelle opere diaboliche, che egli in principio attribuiva a volgare fantasia, ed indispettito d’altronde pel terrore, e per l’oltraggio sofferto, divisò apporre un sicuro rimedio a tanto male.
Era in quell’ epoca Arcivescovo della Chiesa Sorrentina Barbato, che fu il ventunesimo fra i Pastori ed il secondo fra gli Arcivescovi di quella Chiesa. A costui si rivolse il Doge e narrandogli minutamente tutto ciò che era occorso proprio a lui medesimo, forte il pregò, che colle potestà inerenti al suo Carattere, e con i mezzi che gli conferiva la santa Madre Chiesa, volesse adottare tale temperamento da imporre termine a quelle immani apparizioni.
Quel saggio Prelato trovando la domanda consentanea alle sue medesime brame, stabilì purgare il tempio pagano, consacrandolo al culto del vero Dio sotto il patrocinio di S. Felice Vescovo di Nola, ed a renderlo anche più venerando, venne risoluto che ivi fosse trasferito il corpo di S. Bacolo, donde poi la Chiesa prese il nome dei SS. Felice e Bacolo.
Il Santo Vescovo Bacolo, che molti opinano avere appartenuto alla nobilissima famiglia Brancaccio di Napoli, governò la Chiesa Sorrentina dal 660 al 679.
Fu insigne per santità di vita e per scienza nelle sacre discipline, e morto in concetto di santità, i cittadini di Sorrento pensarono riporre il suo corpo nella spessezza di uno delle mura che bastionava la città, acciocché col suo potere tenesse questa difesa da nemiche aggressioni. Venne adunque decretato togliere il sacro corpo dall’ antico Ricetto, e con gran pompa recarlo nel nuovo tempio.
Tra i miracoli di questo santo narrasi che, nella traslazione delle sue reliquie, si sparse per le vie un tale soavissimo odore che ne rimase impregnata tutta la città, odore che emanò per moltissimo tempo il suo sepolcro; e che dopo qualche tempo che il suo corpo fu recato nella detta chiesa, un tal Sergio custode di essa, avendo tolta, con pochissima riverenza, una delle quattro colonne che ornavano la tomba del Santo, per pena fu colto da paralisi appunto a quel braccio che aveva toccato la colonna. Della qual cosa egli ravveduto e pentito, impetrò innanzi alle sante reliquie la sua guarigione e bentosto tornò alla primiera santità.
Prima però che l’ arcivescovo Barbato si recasse a purgare ed a benedire il riferito tempio, impose che fosse sgombrato da tutti gli idoli pagani che ivi si trovavano. Il popolo volle spontaneamente somministrare la sua opera nell’ abattere quegli avanzi del gentilesimo, e colmi di gioia gran numero di popolani si recarono al tempio, e posto a ciascuno di quei simulacri una fune al collo, in mezzo all’universale tripudio, li trascinarono fino a Prospetto, e da quel sito li precipitarono nel sottoposto mare.
Or narra la leggenda che appena questi idoli furono piombati nel mare, tutto ad un tratto l’aria divenne buja, violenti baleni solcarono l’atmosfera, sicchè pareva che il cielo andasse in fiamme. Un rumore fino allora inaudito empiva l’aria, rumore che partiva dalla triplice forza degli urli dei fiotti infuriati, dei muggiti del vento, dei scoppi della folgore. Impetuosissimo vento aggredendo tutti i punti dell’orizzonte, schiantò del tutto i ripari dell’antico porto, e spinse i marosi fin nel più fitto abitato della marina devastando case, magazzini, e quante altre fabbriche ivi esistevano.
Soggiunge la leggenda che le acque del porto Sorrentino, dapprima serene e carezzevoli, da quel giorno divennero infide, e turbolenti al pari di ogni altro mare”.
Fabrizio Guastafierro
© Nessuna parte può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro, senza l’ autorizzazione scritta dell’ autore.
1 Sul punto si vedano, tra gli altri:
– Bartolommeo Capasso, in Memorie Storiche della Chiesa Sorrentina (edito per la prima volta a Napoli nel 1854 dallo Stabilimento dell’ Antologia Legale e più recentemente ristampato, in copia anastatica, da Forni Editore di Bologna), pagine 42 e 43.
– Pasquale Ferraiuolo – “La Chiesa Sorrentina e i suoi Pastori” (pubblicato a Castellammare di Stabia da EIDOS Nicola Longobardi Editore, nel 1991, grazie alla Venerabile Congregazione dei Servi di Maria di Sorrento), pagina 50.
– Pasquale Ferraiuolo “Chiese e Monasteri di Sorrento, cenni storico artistici”, pubblicato a Sorrento nel 1974 a cura della Venerabile Congregazione dei Servi di Maria”, pagina 109.
– Pasquale Ferraiuolo – “La Venerabile Arciconfraternita sorrentina del SS. Rosario”, pubblicato a Sorrento presso la Tipolitografia Gutemberg ’72, pagina 40
– Vincenzo Donnorso, “Memorie istoriche della fedelissima ed antica Città di Sorrento”, pubblicato a Napoli nel 1740, pagina 57.
– Gaetano Amalfi – “Tradizioni ed usi nella Penisola Sorrentina” – edito a Palermo nel 1890 e più recentemente ristampato, in copia anastatica, da Forni Editore di Bologna, pagine 162 e 163.
– Ferdinando Ughelli – “Italia Sacra sive de episcopis Italiane et insularum adjacentium” – edizione pubblicata a Venezia nel 1720 – tomo sesto, pagina 604.
2 Gaetano Canzano Avarna, “Leggende Popolari Sorrentine” edito a S. Agnello nel 1883 e ristampato in copia anastatica da Arnaldo Forni Editore di Bologna.