Una ipotesi da scartare
Non si può parlare del Cardinale Landulfo Bulcano di Sorrento senza tener conto delle origini della sua famiglia, o degli uomini e delle donne che, nel corso dei secoli, ne accrebbero la fama e le ricchezze, o di quanti nell’ acquisire beni, feudi e titoli contribuirono ad accrescere la gloria di questa casata.
Ciò anche perché proprio l’ appartenenza ad una famiglia che riuscì a godere di ottima reputazione agli occhi di quanti – a prescindere dalle dinastie – dominarono il Mezzogiorno d’ Italia rende più facilmente individuabili i presupposti in ragione dei quali lo stesso Landulfo Bulcano potette raggiungere livelli di incredibile prestigio fin dal momento in cui la monarchia angioina prese possesso dell’ Italia Meridionale.
Così come il credito di cui godettero personaggi vissuti dopo la scomparsa dello stesso cardinale sorrentino, contribuisce a far comprendere in quanta considerazione fosse ancora tenuta la stessa famiglia tanto nella corte reale di Napoli, quanto negli ambienti pontifici, probabilmente proprio per la sua antica dignità e per il poter vantare tra i suoi appartenenti anche un porporato che giunse ad un passo dal governo del Regno di Napoli.
Fin d’ ora, però, abbiamo il dovere di avvertire che il compito più difficile, in questo senso, è quello di individuare un ceppo d’ origine utile per indicare le radici di un albero genealogico che, comunque, risultava ricco e prospero fin da epoca normanna.
Già a partire dal XII secolo, infatti, può essere dimostrata l’ esistenza di tanti e tali di quegli appartenenti alla famiglia Vulcano considerati nobili (che all’ epoca erano ancora noti con il cognome Bulcano) da rendere impossibile il tentativo di individuare elementi sufficienti e convincenti per ricondurli tutti (o almeno parte di essi) ad un unico comune capostipite risalente a quel periodo o ad un’ epoca immediatamente precedente.
Di fronte all’ assenza di notizie certe, riferibili ad un periodo anteriore rispetto al XII secolo, si ha motivo, quindi, di ritenere che – sullo specifico argomento – ci si trovi al cospetto di ostacoli che, per ora, devono essere ritenuti insormontabili.
Ciò a maggior ragione se si considera che la ricerca dell’ origine dell’ uso di un cognome – fatte salve rare eccezioni – non può spingersi molto più indietro nel tempo.
Per questo motivo ci vuol poco per comprendere come – allo stato attuale – sia impossibile riuscire a trovare tanto la matrice della cognomizzazione dei Vulcano, quanto le ragioni che hanno determinato la sua nascita ed il suo utilizzo, e, consequenzialmente, la persona che, per prima, ha iniziato ad utilizzare tale cognome o ad essere individuato con esso, anche se – come meglio spiegheremo in seguito – abbiamo fondate ragioni per ritenere che la stirpe dei Bulcano possa avere avuto nobili origini bizantine.
Di fronte a tanta aleatorietà, in ogni caso, non ci è sembrato opportuno scartare alcuna ipotesi.
Nemmeno quella più inverosimile.
Giusto per “sgomberare il campo” da ogni possibile equivoco, quindi, abbiamo valutato positivamente l’ opportunità di iniziare gli approfondimenti sulle probabili origini della famiglia Bulcano evidenziando che l’ unica teoria da considerarsi priva di ogni fondamento è quella tendente a dimostrare la discendenza degli appartenenti a questa casata da una antica casta sacerdotale (quella nell’ ambito della quale veniva prescelto il “Flamine Volcanalis”) dedita alla venerazione ed alla cura del culto per il Dio Vulcano (1).
Ciò malgrado il fatto che la rete presente nella maggior parte degli stemmi dei Vulcano richiami proprio quella – la celebre rete di Vulcano – che la mitologia attribuisce alla celeberrima divinità italica per intrappolare tanto la dea Venere (sua moglie), mentre si “intratteneva piacevolmente” con il dio Marte (suo amante); quanto per immobilizzare la dea Era (ovvero Giunone) sua madre (2).
In effetti, la questione dell’ individuazione di un punto di partenza dal quale far partire la storia di questa famiglia non solo è sempre stata – e resta – particolarmente controversa, ma addirittura è stata al centro di accese dispute.
Basti dire – come spiegheremo meglio in un apposito capitolo – che i migliori genealogisti del Regno delle Due Sicilie e perfino illustri giuristi della Real Camera di Santa Chiara e del Sacro Consiglio a due ruote giunte (che, nella seconda metà del Settecento si occuparono di una causa di reintegra della famiglia Vulcano al Seggio di Nido), a lungo hanno dibattuto, senza giungere ad una conclusione che possa essere considerata convincente e definitiva, circa le presunte origini sorrentine o sulle (non meno presunte) origini napoletane della casata dei Vulcano.
Ciò non toglie che la materia è ricca di spunti da prendere in considerazione e da approfondire.
Compresi quelli che ci derivano dai racconti di miracoli e leggende che, pur risultando suggestivamente fantasiosi, non mancano di esercitare un particolare fascino.
Malgrado lo scarso credito che può essere riconosciuto a questi racconti, infatti, si deve prendere atto che ne esistono alcuni miranti ad attestare l’ esistenza di una famiglia Vulcano sul territorio sorrentino in epoche assai remote.
E non solo.
Volendo seguire le tradizioni orali, infatti, ci si potrebbe spingere fino ad affermare che un appartenente alla casata dei Bulcano di Sorrento è stato al centro di eventi a di poco prodigiosi perché in grado di guarire addirittura un santo. Secondo una leggenda – sulla quale ci si soffermerà in un ulteriore apposito capitolo -, infatti, sarebbe stato proprio uno dei primissimi appartenenti alla stirpe dei Bulcano di Sorrento a far rimettere in sesto Sant’ Antonino.
La qual cosa – considerando l’ epoca in cui visse quello che oggi è considerato come il principale patrono di Sorrento – proietta le ricerche fino al VII secolo d.c.
Ma tutto questo, evidentemente, trattandosi di un episodio che riguarda eventi cattolici e non il mondo degli idoli pagani, appartiene ad un’ altra storia
Fabrizio Guastafierro
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Note:
(1) Le testimonianze ed i documenti riferiti alla famiglia Vulcano, malgrado l’ esistenza di qualche leggenda, non consentono di azzardare ipotesi che prendano in considerazione periodi antecedenti al IX secolo.
Per questa ragione, (come già è stato evidenziato nel testo principale di questo capitolo) pur essendo – allo stato – impossibile determinare un suo capostipite e l’ esatta zona di origine di questa casata, appare azzardato prendere in considerazione la tesi secondo la quale i Vulcano avrebbero tratto la loro cognomizzazione dal culto tributato, in epoca remota, da alcuni di essi alla omonima divinità italica. Ciò, oltretutto, anche perché quella del Dio Vulcano è una figura mitologica che, nella provincia partenopea, potrebbe avere goduto di particolari devozioni (ma l’ uso del condizionale è d’obbligo visto lo scetticismo di quanti pure considerano questa eventualità) solo nella zona di Miseno e non in quelle Città di Sorrento o di Napoli dove, viceversa, gli storici ed i genealogisti più accreditati ritengono che possa essere “nata” questa stessa famiglia.
Il fatto, poi, che a Sorrento abbia risieduto anche un’ altra famiglia (quella degli Ammone) che si identificava in un cognome richiamante una fittizia venerazione verso una divinità pagana (quello del dio egizio Ammon) non consente di immaginare che la Terra delle Sirene, ai tempi dell’ avvento del Cristianesimo, possa essere stata una sorta di colonia dove i cultori di espressioni devozionali destinate all’ estinzione hanno trovato rifugio.
Nel caso degli Ammone, infatti, la cognomizzazione sembra dovuta al desiderio di identificarsi in un comune capostipite (Aymon Ammone) vissuto in Francia attorno all’ XI Secolo.
Quanto alla figura del Dio Vulcano non ci sembra inopportuno ricordare quanto ne ha scritto Corrado D’ Alesio in “Dei e Mito”, pubblicato a Milano nel 1954 da Edizioni Labor. Questi, infatti, a proposito del Dio Vulcano ha evidenziato: “Antichissimo dio del fuoco e dei metalli, onorato dai popoli italici. Era anteriore a Giove, di cui in origine aveva gli attributi, e veniva considerato anche come dio della guerra.
Aveva per compagna la dea Stata Mater, o la dea Maia (la Terra). Fu onoratissimo come dio del focolare e come protettore dagli incendi. A Roma al culto di Vulcano era addetto uno speciale flamine (Flamen Volcanalis) e in suo onore furono istituite le feste Volcanalia; si festeggiava anche nel Tubilustrium del 23 maggio (in questa cerimonia si lucidavano e si offrivano al dio le trombe e gli utensili in metallo usati per il culto). Aveva un tempio presso il Circo Flaminio e come dio fonditore di metalli era detto Mulciber, Era particolarmente onorato in Etruria e ad Ostia, dove era considerato il dio principale.
Più tardi, quando il culto ellenico cominciò a diffondersi in Roma, venne identificato con Efesto di cui assunse il carattere e gli attributi”.
(2) A proposito del Dio Vulcano, infatti, in “Mitologia – Dei, eroi, miti, saghe e leggende” edito da Peruzzo & C. S.r.l., dalla scheda 73 alla scheda 76 della sezione dedicata a “Dei e miti” – si legge: “Nella buia fucina di Vulcano, nascosta nelle viscere delle montagne che dalle loro cime eruttavano fuoco, giunse Elio, il dio Sole, luminoso e maestoso, e d’ improvviso le fiamme del fuoco che ardeva nel focolare si ravvivarono e la grotta si inondò di chiarore. Vulcano e i suoi operai ascoltarono con stupore le parole di Elio che informò il dio del fuoco di aver appena visto la sua bella moglie Venere, Afrodite per i Greci, in compagnia di Marte, il dio della guerra.
Senza perdere tempo Vulcano uscì dalla fucina e si diresse verso la stanza in cui si trovava il letto coniugale; lì sorprese la propria sposa Venere insieme al dio. Invece di interrompere i due amanti però, Vulcano fece ritorno alla sua fucina e con l’ aiuto dei suoi leali aiutanti fabbricò una maglia metallica, che in seguito pose sul talamo nuziale, coprendo la con la tela dei tendaggi.
Quando i due amanti tentarono di alzarsi dal letto, questo si mosse e la pesante rete cadde sopra di loro.
Intrappolati e senza possibilità di muoversi, Marte e Venere videro sfilare davanti a loro tutte le divinità dell’Olimpo, che furono dunque testimoni dell’ infedeltà della bella sposa di Vulcano“.
Quanto all’ utilizzo della “rete di Vulcano” nei confronti di sua madre Giunone è opportuno tenere conto dei difficili rapporti che il dio del fuoco ebbe con la moglie legittima di Giove fin dalla nascita.
Per ripercorrere le tappe salienti che caratterizzarono i contrasti tra la madre e ed il figlio, ancora una volta mutuiamo quanto riportato da in “Mitologia – Dei, eroi, miti, saghe e leggende” edito da Peruzzo & C. S.r.l., dalla scheda 73 alla scheda 76.
A tal riguardo, tra l’ altro, è scritto: “Vulcano era figlio di Giove e questi scelse il meglio per lui, soprattutto considerando che si trattava del figlio generato con la sua sposa legittima, Era.
Vulcano, l’ Efesto dei Greci, non era molto grazioso, poiché oltre che zoppo, aveva il corpo storpiato al punto che la sua stessa madre, Era, nel vederlo deforme, lo cacciò dall’ Olimpo.
Di conseguenza il frutto dell’ unione dei divini sposi, Giove ed Era, non contribuì a una maggiore intesa tra i due, poiché le loro liti non cessarono mai e addirittura si aggravarono fino all’ estremo. Secondo alcune versioni del mito, lo stesso Vulcano ricevette un forte colpo sulle gambe mentre cercava di proteggere sua madre, cosicché rimase zoppo per sempre da allora i cantori dei miti lo chiamarono “l’ illustre zoppo a entrambi i piedi”.
Omero, ineguagliabile narratore di miti, descrisse con grande abilità, nella sua opera intitolata Iliade, l’ inquietudine di Era nel contemplare la brutta immagine del figlio che, appena nato, presentava già dei tratti fisici deformi.
Ciò era accaduto probabilmente perché era stato generato quando la più illustre coppia dell’Olimpo, costituita da Giove e da Era, aveva continue discussioni e rapporti molto tesi.
Dunque, sbalordita e sconcertata a causa di alcune liti avute con il suo sposo Giove, Era commise un errore di cui più tardi si sarebbe pentita: senza alcuna premeditazione, preda di una furia incosciente, scagliò nell’ abisso il figlio indifeso.
Questi, dopo essere caduto per una notte e un giorno, sprofondò nelle acque dell’ oceano, finché fu raccolto dalle creature che abitavano nelle profondità del mare, e fu colmato di attenzioni. Negli abissi le ninfe e le dee marine scavarono una grotta e all’ interno di essa costruirono una fucina con ferri del mestiere e utensili vari, perché Vulcano lavorasse i metalli e creasse gioielli e piccoli monili per le sue benefattrici, le Nereidi, creature del mare. Il mito narra che, per più di nove anni, “l’ illustre zoppo da ambo i piedi” si dedicò, in quel luogo così remoto, al solo compito di soddisfare tutti i desideri delle sue salvatrici.
Regalò loro una grande varietà di bellissimi gioielli dal valore inestimabile creati con le sue stesse mani.
La riconoscenza di Vulcano nei confronti delle dee e ninfe che gli avevano salvato la vita non aveva limiti, e ogni volta che gli si presentò l’ occasione corse in loro aiuto.
Poteva trattarsi di fabbricare le armi per uno degli eroi da loro protetti, o di creare stupende cetre, collane, troni o corone di valore incalcolabile.
È lo stesso Vulcano, in un brano classico, a descriverci così i fatti: “Venni scagliato giù dal cielo e caddi lontano per volontà della mia insolente madre, che mi voleva nascondere perché ero zoppo. Il mio cuore avrebbe dovuto sopportare dolori terribili se non mi avessero accolto, nelle profondità del mare, Teti ed Eurinome, moglie e figlia del fluente Oceano.
Vissi nove anni lì con loro, fabbricando molti oggetti di bronzo, brocche, bracciali, anelli e collane, in una grotta profonda, circondata dall’ immensa, gorgogliante e spumosa corrente di Oceano.
Solo Teti e Eurinome (coloro che mi avevano salvato), fra tutte le divinità e gli uomini mortali, sapevano che mi trovavo lì.
Oggi che Teti “dalle belle trecce” verrà a trovarmi, dovrò ricambiarle il favore di avermi salvato la vita.”
Vulcano era molto grato alle sue protettrici, le ninfe del mare, e compì fedelmente l’ incarico che Teti, con aria molto preoccupata, gli aveva affidato.
La ninfa era accorsa alla fucina di Vulcano per renderlo partecipe della propria pena, e per chiedergli di fabbricare un’ armatura per il figlio, il coraggioso Achille.
Senza dubbio il divino fabbro non provava gli stessi sentimenti per Era, nonostante si trattasse di sua madre, alla quale mai perdonò il crudele comportamento nei suoi confronti. Per molto tempo pensò infatti al modo di vendicarsi, finché un giorno architettò il modo giusto: inventò la famosa trappola dello splendido trono.
Incatenato al trono Vulcano, sentendosi dimenticato dalla sua stessa madre, cercò il modo per punire Era di aver compiuto un’ azione così deplorevole.
Costruì dunque un trono bellissimo e splendente, e per di più così comodo che spingeva chiunque lo vedesse a sedersi. Lo inviò in regalo a sua madre, e questa sentì subito il bisogno di accomodarsi. Si sedette serenamente e notò gli effetti calmanti che il trono aveva: rimase dunque così, in un atteggiamento meditativo e sereno, per un lunghissimo tempo poiché aveva perduto la percezione del tempo. Quando cercò di alzarsi dal soffice scanno, percepì però una tensione che le impediva ogni movimento.
Si rese subito conto del fatto che delle catene, fino a quel momento invisibili, l’ avvolgevano completamente, formando una sorta di fitta rete che la imprigionava con le sue maglie di metallo pregiato. Era provò ogni tipo di stratagemma e di artifizio per liberarsi dagli effetti di quell’ invenzione: non le servirono a nulla, tutto il suo sapere risultava inutile e vano di fronte a quella situazione così insolita.
Stava già pensando di rassegnarsi quando, mentre stava chiedendo agli altri dei dell’ Olimpo di aiutarla, si rese conto che solamente Vulcano poteva essere in grado di creare quel trono così elaborato.
Capì che tutto ciò faceva parte di un piano che suo figlio aveva ordito per vendicarsi di lei.
Si ricordò dunque del proprio cattivo comportamento nei suoi confronti e, sentendosi incatenata, supplicò le altre divinità di intercedere con Vulcano, per liberarla da quei lacci così efficaci”.
“Prima di accorrere dal più furbo tra i fabbri, gli dei dell’ Olimpo provarono tutti i metodi possibili e immaginabili per tentare di liberare Era.
Fu inutile, neppure il potente fulmine di Giove riuscì a intaccare le catene che Vulcano aveva fabbricato.
Nessuno conosceva la lega dei metalli utilizzati, né le proporzioni della miscela. Era dunque impossibile qualsiasi elucubrazione al riguardo per ottenere un risultato soddisfacente.
Dopo essersi riuniti per qualche tempo, gli dei dell’ Olimpo decisero di chiedere a Vulcano di fare ritorno alla montagna dalla quale tempo prima era stato allontanato senza alcun rispetto, con una pedata.
Vulcano però non accettò l’ invito delle divinità olimpiche, perché era convinto che queste non agivano così per loro convinzione bensì sotto richiesta di Era e spinti dal potere che la protagonista principale della vicenda possedeva.
Inoltre egli sapeva benissimo che fino al giorno precedente essi si burlavano del suo aspetto deforme e del fatto che fosse zoppo. Decise dunque di non venire incontro alle preghiere degli dei dell’Olimpo; essi allora architettarono un piano che raggiunse i risultati sperati. Decisero di affidare l’ incarico a Dioniso, colui che aveva inventato il vino, il quale fece visita a Vulcano nella sua enorme fucina.
Il divino fabbro, a causa del calore che c’ era lì dentro, accettò la bevanda che il suo ospite gli offriva e la gustò con piacere. Fu così che, secondo quanto narrano le leggende classiche, Vulcano iniziò a sentirsi euforico e accompagnò Dioniso fino all’ Olimpo.
Vi entrò a dorso di un asino e si diresse subito nel luogo dove Era si trovava incatenata. Preda dell’ ebbrezza, il divino fabbro sciolse con mano abile tutti i nodi che la tenevano legata al trono sublime, e la dea tornò a essere libera dalla rete e dalle catene, che rimasero ammonticchiate al suolo.
Da quel momento madre e figlio si riconciliarono e vissero in armonia”.