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18) La riconoscenza e le attenzioni di Federico II per Sorrento

L’idillio nato tra Federico II ed una parte significativa della nobiltà sorrentina fu tra i più fortunati e fecondi.
Come si è già avuto modo di evidenziare in precedenza, la presenza di una autentica roccaforte ghibellina, unitamente alla crescente e sempre più accanita determinazione manifestata dai nobili del Sedil Dominova nel sostenere le posizioni imperiali – anche nei frangenti più delicati – fecero sì che l’Imperatore vedesse in Sorrento una sorta di vivaio dal quale attingere a piene mani nel tentativo di creare una valida classe dirigente indiscutibilmente fedele alla sua causa.
Come pure lo svevo tenne sempre presente il patriziato peninsulare anche nella individuazione di solidi punti di riferimento in campo militare, sul fronte diplomatico e perfino nella vita di corte.
Il puntuale riscontro dei positivi risultati conseguiti dagli appartenenti all’aristocrazia della Terra delle Sirene alimentò un processo virtuoso grazie al quale il sovrano rivolse alla costiera sempre maggiori e frequenti attenzioni.
La qual cosa non mancò di procurare benefici effetti individuali, ma anche positive ricadute per l’intera comunità locale. Eppure quello che può essere considerato alla stregua di un “esordio” – come già evidenziato nel capitolo precedente – non fu dei più felici. Tuttavia a far dimenticare presto l’incidente chiusosi con la messa in stato di accusa dell’ Arcivescovo Alferio, contribuì anche il passato della Città del Tasso.
Il patriziato locale, infatti, poteva vantare tanto appartenenti a famiglie che si erano apertamente schierate a fianco della famiglia imperiale ed in particolare di Lotario (in occasione dei suoi scontri con Ruggiero per il dominio sul Regno delle due Sicilie), e di Corrado III. Né deve sottovalutarsi il fatto che i Teodoro, ormai pienamente “sorrentinizzati”, discendevano da quel Teodoro (da cui, per l’ appunto, nacque l’omonima stirpe) che gli storici vogliono giunto in Italia al seguito di Ottone I.
Circa questa famiglia, inoltre, non deve essere trascurato un altro rilevante particolare. Anche perché forti delle origini teutoniche e della loro fedeltà alla casa imperiale tedesca – oltre che per i loro evidenti meriti – proprio i Teodoro ottennero da Enrico VI, nel 1197, il privilegio di poter usare l’aquila imperiale per fregiare il capo del proprio stemma.
Tutti questi elementi, assieme alle costanti manifestazioni di assoluta fedeltà che si sono registrate dopo che gli abitanti della Città del Tasso hanno “abiurato” Ottone IV di Brunswich, furono sicuramente tenuti nella debita considerazione tanto da Federico II quanto dai suoi discendenti.
Al punto che – come già ricordato – ci furono ben tre appartenenti a famiglie sorrentine (tutti dell’albero genealogico dei Capece) che giunsero ad essere designati viceré.
Un ruolo ed una dignità, questa, che seppur conseguita alla vigilia della conquista angioina, non  meritano commenti e non possono far altro che consacrare l’apoteosi di un rapporto fiduciario consolidatosi nel tempo.
Analoghe considerazioni possono essere articolate a proposito di alcuni incarichi affidati ad esponenti della famiglia Teodoro.
Per tutti ad esempio, si ricordi, ancora una volta, il caso di Angelo, spedito a Roma per ottenere la revoca di ben due scomuniche pronunziate contro l’imperatore.
Anche in questo caso il prestigio dell’incarico è palese.
Come evidenti sono i sentimenti di profonda stima, di alta considerazione e di assoluta fiducia che animarono la scelta dell’ecclesiastico sorrentino da parte dell’imperatore passato alla storia anche con il nome di “Stupor Mundi”.
Qualche riflessione più approfondita, invece, meritano i ruoli, gli incarichi e le investiture che videro interessati i Vulcano.
Tra questi spicca l’importanza di Giovanni che secondo Scipione Mazzella (in “Descrittione del Regno di Napoli”) “essendo versatissimo nelli maneggi di guerra fu creato provveditore delle fortezze e castella dell’Isola di Sicilia”.
Un incarico, questo, che Federico II riteneva delicatissimo attribuendogli un significato cruciale nelle sue strategie.
L’imperatore, infatti, fin dai primi passi compiuti alla guida del Regno delle due Sicilie riservò alla materia una enorme rilevanza.
Riprendendo quanto già stabilito in occasione dell’assise di Capua (1220 – 1221), nel Liber Augustalis (anche conosciuto con il nome di “Costituzioni Melfitane”) ebbe modo di stabilire “che tutti i castelli, le fortezze, le mura e le opere di difesa che dalla morte di re Guglielmo sono state costruite in quelle città e in quei luoghi e che non sono tenuti in mano nostra vengano consegnate ai nostri messi per essere abbattute”.
Nello spiegare la scelta, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (in “Federico II, Ragione e Fortuna”) scrive: “Federico nella sua adolescenza aveva ben sperimentato la forza oscura dei potenti locali, normanni o tedeschi, che miravano ad annullare o negare l’efficacia della presenza regale e da là, dalle loro mura turrite, si muovevano per abbatterla. Nell’anno delle costituzioni Melfitane (1231) aveva scritto che “L’imperatore (e il Re) è presente in ogni luogo” e quindi deve essere anche nei castelli, orgogliosa opera sua dopo che gli altri edifici qualificati tutti come “sedi del nemico” fossero stati abbattuti”.
La stessa autrice, inoltre, ricorda che: “Gli anni di relativa pace in cui Federico potè dedicarsi al suo Regno Siciliano furono meno di dieci, appunto quelli che vanno dal 1231 al 1239, fine definitiva della precaria concordia con il papato”.
Partendo da queste premesse, dunque, l’importanza del ruolo di Giovanni Vulcano assume un significato di primissimo piano visto che l’ Imperatore gli affidò la cura della sicurezza della sua amata isola proprio nel momento in cui, ricominciando le polemiche e gli attriti con il Papa, fu costretto a rivolgere maggiori attenzioni alla zona continentale.
Non deve essere trascurato, inoltre, Adenulfo Vulcano che fu ammesso nel novero dei familiari  dell’imperatore e che fu suo falconiere personale. Anche a quest’ ultima carica è bene dedicare qualche attenzione perché, a dispetto delle apparenze, fu prestigiosissimo agli occhi del sovrano.
Al punto che sull’argomento, lo “Stupor Mundi” ha voluto dar vita ad una monumentale opera – l’unica scritta di suo pugno -: il “De arte venandi cum avibus”.
L’ imponente trattato ha un altissimo valore scientifico ed assume un significato davvero eccezionale soprattutto se rapportato all’ epoca della sua redazione.
Sull’ argomento Alberto Gentile sul sito www.stupor-mundi. it scrive: “Federico II aveva letto Aristotele nelle traduzioni di Michele Scoto.
Pur apprezzandolo come filosofo, lo criticò come ornitologo tanto che ebbe a dire: “Nello scrivere abbiamo anche seguito Aristotele, quando ciò appariva necessario. In alcuni punti, tuttavia, siamo dell’ opinione, sulla base delle esperienze da noi condotte, che, per quanto concerne la natura di determinati uccelli, egli si sia allontanato dalla verità. Pertanto non in tutto concordiamo con il Principe dei filosofi giacché mai o solamente di rado egli si dedicò all’ aucupio, a differenza di noi che l’ abbiamo sempre amato e praticato.
Aristotele narra molte cose sugli animali specificando che furono altri a dirle; ma ciò che altri sostennero, egli stesso non vide né fu visto da coloro che per lui si resero garanti. La certezza non si raggiunge con l’ orecchio…
”.
Lo stesso Gentile, aggiunge: “L’ Imperatore voleva forse solo scrivere un testo per l’ addestramento alla caccia dei rapaci; ma la padronanza del problema e del metodo scientifico adottato gli consentirono di produrre un vero e proprio trattato di ornitologia.
Più di 500 anni prima di Linneo (Rashult 1707 – Uppsala 1778) egli usò la nomenclatura binomia per designare le diverse specie d’ uccelli. L’ opera è divisa in due parti. La prima corredata di 500  miniature, presenta circa ottanta esemplari di volatili che possono essere catturati dai rapaci e ne descrive le abitudini, l’ aspetto fisico, i modi di difesa, le tecniche di volo, tutte conoscenze  indispensabili per addestrare con successo un falco. La seconda parte, utilizzando minuziose descrizioni e miniature, illustra le varie fasi dell’ addestramento del falco con tutte le specifiche attività del falconiere
”.
Proprio perché così esperto nella materia, Federico non avrebbe mai conferito la carica di Falconiere ad un uomo che non godesse della sua piena stima e della sua incondizionata fiducia.
Peraltro proprio l’ “investitura” di Adenulfo comportò particolari attenzioni per la Penisola Sorrentina.
Vincenzo Russo (in “Sorrento medioevale”), infatti, evidenzia che l’ attenzione per i falchi in Costiera era ancora viva in epoca angioina dal momento che, proprio a quel tempo, si ha notizia dell’ esistenza di numerosi rapaci di questa specie “in certi luoghi in cui già li faceva cercare Federico II”.
L’incarico affidato all’appartenente alla famiglia Vulcano, insomma, fu molto più prestigioso di quanto non lascino sembrare le apparenze.
Pur alle prese con il controllo di territori sconfinati, lo svevo, riservò ancora altre attenzioni a Sorrento. Ciò sicuramente grazie all’utilizzo delle notizie fornitegli da informatori zelanti e solleciti.
In particolare desideriamo ricordare che sempre nelle costituzioni melfitane, ben due articoli contengono il riferimento ad aspetti che (sia pure assieme ad altri comuni) riguardano esplicitamente Sorrento. In essi – ai titoli 80 ed 81 – si legge:
IL MODO DI SCRIVERE I DOCUMENTI
Abolendo con una legge limpidissima le consuetudini che abbiamo udito essere in vigore una volta in alcune parti del Nostro Regno, decretiamo che gli strumenti pubblici e qualsiasi cauzione siano scritti dai Nostri notai con scrittura comune e leggibile, del tutto abolito il modo di scrivere che si conserva fino ad ora nelle città di Napoli, nel ducato di Amalfi e di Sorrento. Vogliamo anche e stabiliamo che i predetti strumenti pubblici e le altre simili cauzioni siano redatti da ora in poi su pergamena. Poiché si spera che la loro fede sia duratura e lunga nei tempi futuri, pensiamo che sia giusto che quei documenti non corrano il pericolo di essere distrutti per vecchiezza. Da quegli strumenti scritti su carta di papiro o in altro modo non venga ricavata nessuna prova nei giudizi o fuori di essi, a meno che non si tratti di ricevute e di controricevute. I documenti redatti su carta bambagina nei predetti luoghi di Napoli, di Amalfi e di Sorrento, entro un biennio dal giorno della pubblicazione di questa disposizione, siano ricopiati in comune scrittura leggibile.
RIMOZIONE DEGLI AGGIUNTI E DEI MEDIATORI
Poiché con nuova sanzione a Nostro nome è stato stabilito che fossero designati dalla Nostra curia giudici competenti delle cause, proibiamo che da ora in poi vengano eletti gli aggiunti e i mediatori che, per consenso dei privati venivano eletti fino a ora per decidere le questioni nei luoghi predetti di Napoli, di Amalfi e di Sorrento e nei circonvicini che non avevano nessuna giurisdizione se non quella che gli elettori conferivano loro. Vogliamo invece che tutte le cause siano esaminate e condotte fino alla sentenza davanti ai baiuli e ai compalazzi soltanto dai giudici eletti da Noi. Gli appelli alle loro sentenze non devono essere rivolti, come è stato già detto, ai compari e agli aggiunti, ma alla Nostra altezza o ai maestri camerari come nelle rimanenti regioni del Regno, tuttavia non negando gli arbitrati sopra quelle cose intorno alle quali si può giungere secondo legge ad un accordo attraverso arbitri
”.
I due titoli appena riportati, oltre a rappresentare una ulteriore testimonianza delle attenzioni rivolte dall’ Imperatore a Sorrento dimostrano, in concreto, quanto minuziose fossero le sue conoscenze su aspetti particolari del territorio e quanto capillare fosse il controllo esercitato da Federico in ogni angolo del Regno.

© Testo integralmente tratto da “Lo stemma della Città di Sorrento, origine e significato, certezze ed ipotesi, note araldiche e cavalleresche” di Fabrizio Guastafierro, pubblicato a Sorrento nel 2005 da Edizioni Gutenberg ’72 Sorrento