5) Le ipotesi insostenibili
L’esistenza di prove capaci di testimoniare il fatto che la foggia dello stemma di Sorrento era simile a quella attuale almeno dalla fine del 1300 (diversificandosi solo per numero di fusi) ed identica a quella odierna a partire almeno dalla seconda metà del XVI secolo, permette di stabilire quali siano le ipotesi insostenibili in merito al suo significato.
Nell’offrire possibili interpretazioni sull’argomento, in concreto, nessuno si è avventurato oltre le spiegazioni che, in astratto, possono dedursi dai principi araldici generali.
L’unica eccezione è rappresentata da Elisabetta Aversa che, nel suo “’Na ‘facciata ‘e funesta”, prende in considerazione una possibilità sicuramente romantica e suggestiva, ma non attendibile.
L’Aversa, infatti, scrive: “Fin dall’antichità la Città di Sorrento si è fregiata dell’emblema che la rappresenta; non abbiamo notizie certe in merito a tale evento ma possiamo almeno spiegare il significato araldico di questo stemma.
Le losanghe di argento (cinque nel nostro emblema) indicano nei cittadini virtù guerriere e vigilanza contro i nemici, mentre il campo rosso sul quale poggiano sta a simboleggiare la difesa della propria patria e della religione. Nel corso dei secoli molte sono state le occasioni in cui Sorrento ha mostrato tali virtù, ma a noi piace ricordare un episodio che accadde quel famoso 13 giugno 1558, giorno in cui Sorrento fu devastata dall’ira dei saraceni. Apertasi loro la porta che da Marina Grande saliva alla città, saccheggiarono e bruciarono dovunque prendendo molti prigionieri e finanche le monache; i nobili Pompeo Marzati, Paolo Vulcano, e tre giovani della famiglia Anfora, affrontarono nella chiesa di Sant’Antonino, un gruppo di invasori per impedire il furto dell’argentea statua del Santo Patrono, ma caddero massacrati. Fu forse per onorare la memoria di questi cinque valorosi che nacque questo emblema con le cinque losanghe?”
In effetti l’ipotesi è difficilmente condivisibile per diversi motivi.
Innanzitutto perché i fatti a cui si riferisce l’autrice prendono in considerazione l’aspetto parziale di una pagina di storia assai dolorosa per la comunità locale perché culminata con l’invasione dei turchi; con il rapimento (finalizzato ad ottenere lauti riscatti) di molti sorrentini; con atti di violenza – anche a sfondo sessuale – tipici di certe scorribande saracene e con il saccheggio e la distruzione della città.
Difficile immaginare che rispetto a momenti così spiacevoli si sia voluto ricordare il pur nobile ed estremo sacrificio (tra l’altro non unico in quegli stessi giorni) di soli cinque patrizi.
In secondo luogo perché la storia della Terra delle Sirene è piena di episodi che avrebbero meritato di essere immortalati nello stesso modo perché egualmente eroici, anteriori e molto più felici di quello preso in esame dall’Aversa.
Infine non si può trascurare il fatto che – come già evidenziato in premessa – l’insegna sorrentina era simile a quella oggi conosciuta già due secoli prima dell’ invasione dei turchi.
Rispetto a ciò è arduo sostenere che l’arma di una città possa essere stata modificata per immortalare un aspetto così specifico ed onorare la memoria e le gesta di una minima parte dei tanti sorrentini che pure caddero in quell’ occasione.
Ciò nonostante, si ha il dovere di cogliere il nobile desiderio della scrittrice evidentemente intenzionata a cercare di colmare l’imperdonabile lacuna esistente in materia, alimentando, in alternativa, la curiosità e stimolando proprio con il ricorso ad una formula interrogativa, l’elaborazione di tesi convincenti.
Non esistendo alcun documento, né potendosi utilizzare alcun atto formale, non resta che considerare un ventaglio di possibilità più attendibili e rispetto al quale procedere per esclusioni.
Purtroppo, non ci sono elementi concreti per sostenere la tesi secondo la quale l’origine dell’arma di Sorrento risalga all’epoca del suo ducato (ovvero ad un periodo antecedente al terzo decennio del XII secolo). E ciò a prescindere dai sempre più esigui margini di autonomia decisionale degli ultimi signori della Terra delle Sirene. Peraltro se così fosse stato, sarebbe anche stato probabile che lo stemma della famiglia dominante avrebbe contenuto elementi richiamanti quello della Città o, viceversa, quello del Ducato avrebbe potuto ispirarsi a quello dei suoi titolari.
Viceversa, tra le insegne delle famiglie Mastrogiudice e Sersale (entrambe discendenti dalle medesime radici genealogiche ducali) e quelle sorrentine non si riscontra alcuna – nemmeno remota – somiglianza.
Ne è possibile trovare elementi di conforto nell’osservazione del Follaro che pure fu l’unica moneta sorrentina mai coniata e che conobbe diffusione proprio nell’epoca considerata.
Non poco impegnativo, invece, è il tentativo di sostenere una qualche comunanza tra lo stemma della Città del Tasso e quello di altre famiglie locali. Almeno facendo il confronto con le armi che vengono accreditate a ciascuna di esse. Nel caso del blasone degli Anfora, ad esempio, la presenza di fusi o losanghe (che comunque differisce da quelli sorrentini per numero e per aspetti cromatici) è una pista troppo inconsistente e vaga per articolare qualsiasi discorso convincente.
Per quanto iscritta al Sedile di Porta ed annoverata tra le più nobili famiglie locali, peraltro, quella degli Anfora non ha ricoperto cariche, né svolto ruoli significativi (in termini di gestione del potere cittadino) se non in epoca cinque-seicentesca.
Un periodo questo che, come già puntualizzato in premessa, è troppo recente.
Similmente impegnativo è il tentativo di confermare la fondatezza dell’ipotesi secondo la quale il numero dei fusi è da rapportarsi a quello dei comuni della Penisola (perché essi hanno, di fatto, acquisito piena autonomia solo in diversi periodi storici che spaziano dal 1300 al XIX secolo) o dei casali (perché a parte il fatto che la loro importanza è variata nel tempo, c’è da ricordare che la nobiltà della “Capitale” non ha mai permesso che essi acquisissero particolare dignità).
Discorso a parte, invece, meritano le tesi miranti a dimostrare la riconducibilità del numero dei fusi presenti nello stemma sorrentino a quello delle porte o a quello dei bastioni della città che potrebbero fondarsi su possibili significati della “pezza onorevole” in chiave bellico-difensivistica.
Nel caso dei varchi che consentivano l’accesso all’interno della cinta muraria del capoluogo della Costiera, infatti, deve rilevarsi che il suo numero è variato nei secoli. La porta di Parsano Nuovo, ad esempio, risale al 1745 e ciò basta, evidentemente, a mettere in risalto l’infondatezza dell’accostamento. Più antica è la datazione dei bastioni che, invece, sono cinque da epoca più remota. Tuttavia, al riguardo, non deve essere sottovalutato il fatto che la cinta muraria (come ricorda Antonino Di Leva nel suo “Entro la cerchia delle mura antiche”) fu completamente rinnovata – ed in parte rifatta – nella parte meridionale, durante la seconda metà del ‘500 e più precisamente dopo lo sbarco e l’opera devastatrice che i saraceni compirono nel 1558.
Peraltro lo stesso Di Leva sottolinea che l’impostazione pentagonale delle fortificazioni è tipica proprio di quel secolo.
Il che, anche in questo caso, costituisce un invalicabile limite temporale.
© Testo integralmente tratto da “Lo stemma della Città di Sorrento, origine e significato, certezze ed ipotesi, note araldiche e cavalleresche” di Fabrizio Guastafierro, pubblicato a Sorrento nel 2005 da Edizioni Gutenberg ’72 Sorrento